L’infanzia felice di Gianluca Virgilio

Va rilevato che la fantasia dell’Autore è stata alimentata da una assidua pratica della lettura, che egli ha esercitato fin dalla fanciullezza, e che ha coltivato in un crescendo da testi semplici, come i fumetti, a libri impegnativi, ma sempre con una costante: il piacere della lettura che lo assorbe totalmente e lo estrania dal mondo circostante. E’ l’Autore stesso che ci dice queste cose, descrivendo le vicende della libreria del padre o le esperienze con amici più esperti.

Ma ci si può chiedere: perché Gianluca Virgilio ha raccontato le vicende narrate nel libro, dal momento che non vi è in lui alcuna volontà esibizionistica? La ragione è, apparentemente, il desiderio di cimentarsi con la scrittura, che è una sua passione antica, coltivata dapprima nella stesura (fortemente raccomandata, se non obbligata) di un diario giornaliero, e poi trasferita nella dimensione del racconto. E’ una vicenda che l’Autore stesso esplicita nel capitolo “Scrivere”, che è appunto una riflessione di poetica. Ma una semplice volontà di scrittura non giustifica la scrittura. E allora possiamo pensare che egli abbia considerato la sua infanzia (nella dimensione che essa assume nel racconto) come un’età felice della sua vita e che abbia voluto conservarne il ricordo per sé (e forse anche per gli altri). Perché l’eterna funzione della scrittura è sempre quella di conservare ciò che può andare perduto nell’oblio. E in effetti le vicende raccontate sono espressione di una vita felice, o, se la qualificazione appare eccessiva, almeno serena, gioiosa. Le vicende rivestono sempre un colore positivo; talvolta si fa luce qualche malinconia, ma mai un dramma. Nel complesso il racconto ci dà l’immagine di una tranquilla vita di provincia, di una famiglia della piccola borghesia impiegatizia, che deve continuamente fare i conti con uno stipendio mensile. Nucleo familiare quasi perfetto: padre professore di Liceo, madre casalinga, due figli, un maschio e una femmina. Padre autorevole, amante dei libri, che parla raramente, spesso per massime; madre affettuosa, severa custode del bilancio familiare, propensa al racconto. Vita scandita da obblighi fissi: la domenica messa e visita ai parenti, gli altri giorni impegnati nei doveri scolastici. Educazione non troppo rigida né troppo permissiva, che lascia all’Autore una certa libertà, di cui è simbolo la bicicletta che lo guida nell’esplorazione della realtà cittadina.

Sotto questo profilo il libro ha anche un significato sociologico e antropologico (che potrebbe essere valorizzato attraverso il confronto con i rapidi mutamenti intervenuti) ma che non esaurisce il suo valore. Il libro è un valido prodotto letterario, che si avvale di una scrittura “chiara e corretta” (come richiede lo stesso Autore, p. 181), che cerca di aderire fedelmente alle cose. A queste qualità possiamo aggiungere che il suo dettato è fluido e scorrevole e procede gradualmente senza farci accorgere dei dati che egli accumula progressivamente nel corso dell’esposizione. Fluidità che rispecchia evidentemente la scorrevolezza con cui le vicende passano nella memoria e nella fantasia dell’Autore.

Ma un altro pregio dello stile va menzionato: la naturalezza degli attacchi dei racconti, che portano subito in medias res o con inizi fulminei (già nel primo racconto: “Si chiamava Pietro ed era figlio di contadini con poca terra”) o con una semplice battuta interlocutoria (“-Che cosa hai pescato?”, in “Nuove amicizie”, p. 134). E la facilità di attacco è segno di una propensione naturale al racconto, ed al piacere del racconto, che traspare da ogni pagina del libro.

Il quale, nel suo dispiegarsi, è anche un documento della formazione dello scrittore, giacché, se per iniziare a scrivere basta un atto di volontà, per imparare a scrivere bisogna solo scrivere. Questo processo è percepibile nel libro, che ha conosciuto diverse fasi editoriali (come dichiara lo stesso Autore nella “Nota editoriale” finale). Così, se nella maggior parte dei brani la preoccupazione per l’esattezza del racconto è più evidente e il dettato è, per così dire, più orientato vero il lettore, in altri (ad es. “Nonno Pietro” e “Nonno Luigi”,  pp. 17-28) l’esposizione è più condizionata dal desiderio di esprimere i sentimenti dell’Autore; un caso limite in questo senso è il brano “Una camminata a Galatina” (pp. 97-102) il cui tono commosso è legato al ricordo della madre, protagonista del racconto (e non è forse un caso che ci sia qui l’unica allocuzione al lettore, p. 102, che interrompe l’oggettività della narrazione).

Se, come teorizza Spitzer, oratio vultus animi, allora il dettato del libro ci restituisce l’immagine di un Autore schietto e sincero, entusiasta della vita, la cui lettura non può che arricchire il lettore.

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