di Paolo Maria Mariano
“The Second Best Exotic Marigold Hotel” è un bel film parzialmente irrisolto, in cui l’iperbolica allegria delle feste indiane nasconde una delicata, ma profonda e feroce malinconia, quella legata per certi versi all’esperienza che si fa di alcuni degli altri umani e per altri ad alcuni eventi della vita. In una delle sue scene, quella straordinaria attrice che è Maggie Smith, due premi Oscar nella carriera, “Dama della Regina d’Inghilterra”, tra il meglio che la storia del cinema abbia forse visto, parlando al giovane “protagonista” (almeno formalmente) del film, si esprime in maniera lapidaria. “C’è una lunga lista di cose per cui non provo alcun interesse: medici, scottature, le stupide zanzare, le persone troppo invadenti; potrei andare avanti per ore, ma c’è solo una cosa che non riesco a sopportare: l’autocommiserazione; distrugge tutto quello che è intorno.” Così dice nei suoi ottant’anni, sorretta quasi solo dalla dignità, scevra da qualsiasi ostentazione. Così dice e insegna. E, sinceramente, quando l’ho sentita, mi sono detto che mi sarebbe piaciuto arrivarci da solo. Comunque, tant’è. L’autocommiserazione distrugge perché tende a cauterizzare l’impulso a migliorare; trasforma tutto in fiele: è una resa delle armi ed è chiassosa perché punta all’autogratificazione indotta dal desiderio di attenzione altrui, sollecitato dal lamento, una buona scusa per non cercare di operare. In fondo l’autocommiserazione è anche un travestimento di quell’istinto che induce al pomposo lodare i sodali, gratificandoli e limitando attraverso questo ancora una volta lo stimolo a migliorare, ma infine gratificando indirettamente se stessi per l’autocompiacimento.