Non tutti i vocabolari dell’italiano contemporaneo registrano il verbo eradicare e il sostantivo eradicazione, che ricorrono più volte nelle righe precedenti. I due lemmi derivano entrambi dal lat. radix ‘radice, con il prefisso ex- ‘da’, quindi ‘dalla radice’. Nella accezione oggi più diffusa si tratta di parole specifiche del linguaggio medico. In questo campo, il verbo eradicare significa ‘eliminare radicalmente’ (ad esempio «eradicare un virus dall’organismo»); il sostantivo eradicazione vale ‘eliminazione radicale di una malattia infettiva’ (ad esempio «diverse strategie possono essere adottate per aumentare il tasso di eradicazione dell’Helicobacter Pylori»). Sono invece etichettati come obsoleti, cioè fondamentalmente disusati (pur se ancora presenti in alcuni vocabolari), i significati di ‘sradicare’ (per il verbo) e di ‘sradicamento’ (per il sostantivo).
Oggi i due significati etichettati come obsoleti conoscono una nuova vita nelle cronache dedicate alla tragica vicenda della xylella, flagello immane che da anni si è abbattuto sulla nostra terra, nell’indifferenza colpevole di molti. Ne ho scritto altre volte, ho lamentato la mancanza di reazione collettiva, oggi intendo parlare solo di fatti linguistici. Se cerco in rete, un po’ a caso, appaiono centinaia di occorrenze delle parole che mi interessano, proprio con riferimento agli alberi di ulivo. «Oggetto: Xylella, buone pratiche per evitare l’eradicazione degli ulivi del Salento» (risposta scritta ad un’interrogazione parlamentare); «Per gli ulivi della Puglia è stato un disastro: almeno 4 milioni di alberi sono già stati abbattuti e altri 30 milioni potrebbero essere eradicati per cercare di fermare la xylella fastidiosa. Il batterio, che provoca l’essicazione degli ulivi ed è stato oggetto di varie polemiche, rischia di estendersi e diventare una vera piaga biblica» (https://notizie.tiscali.it, 17 maggio 2019); «Stessa sorte per altri due olivi secolari, eradicati e bruciati perché colpiti dalla Xylella, il batterio killer che sta devastando la Puglia e che minaccia l’Europa, come una piaga biblica. Unico intervento possibile resta, sinora, quello dell’abbattimento degli alberi» (www.europeanconsumers.it, 7 giugno 2019).
I significati di ‘sradicare’ e ‘sradicamento’ (che fino a qualche anno fa erano poco conosciuti o venivano giudicati obsoleti) di questi tempi riprendono vigore perché fatti nuovi si impongono all’attenzione di tutti. E inoltre si sviluppano usi metaforici, che trasferiscono il significato ad un contesto diverso da quello originario. «Eradicate la povertà, non gli ulivi» reclama una scritta che ho letto su un muro della città. Oggi (purtroppo) tutti abbiamo imparato a familiarizzare con il significato, etimologicamente legato alla parola radice, che eradicare e eradicazione hanno assunto nell’italiano corrente. Il fenomeno si spiega con il divenire della lingua, legato al divenire della vita. La tragica necessità di sradicare gli ulivi è recente, contemporaneamente crescono conoscenza e diffusione di parole un tempo malnote.
Maria Luisa Altieri Biagi, studiosa bolognese scomparsa due anni addietro, accademica della Crusca, autrice di studi fondamentali su Galileo e sulla lingua scientifica, in un suo bel libro intitolato Parola, racconta il seguente episodio. Una decina di anni fa, in via Oriani a Bologna, ad un albero fu appeso un cartello che invitava a lasciar libero il terreno circostante da auto o da oggetti di qualsiasi tipo per «eradicazione ceppi». La Altieri Biagi commenta: «alcuni lettori del cartello ridono, trovando comica l’espressione, quando sarebbe stato possibile dire che quell’albero dovere essere “tagliato” o “sradicato”. Altri sostano davanti al cartello, leggendolo più volte, poi si allontanano perplessi».
In quel contesto bolognese, prima della nuova vitalità acquisita a seguito della xylella, eradicazione risultava per molti parola difficile. E allora: perché usarla in un avviso che si rivolge, indistintamente, a tutti i cittadini? Davvero si resta perplessi quando chi parla o scrive usa espressioni difficili, scartando il ricorso a parole semplici e facilmente comprese da tutti. Chi usa parole poco note crede di ammantarsi di autorevolezza nei confronti di chi quelle parole subisce, a volte senza comprenderle appieno. Il burocratese inquina la nostra vita, lo subiamo nelle istruzioni rivolte dalle amministrazioni ai propri dipendenti, nelle circolari e nelle comunicazioni indirizzate al pubblico, nei moduli e nei formulari che ci troviamo a dover compilare per le normali contingenze della vita. A volte si tratta di una scelta non meditata, dovuta semplicemente a pigrizia, all’abitudine, a comportamenti ereditati o suggeriti dall’alto, perpetuati senza troppo riflettere. Faceva così quel funzionario di polizia inventato da Calvino in un articolo famoso intitolato L’antilingua. Un poveraccio accusato di un modesto furto di vino si esprimeva con la lingua di tutti i giorni, fatta di parole comprese da tutti: «cantina», «accendere la stufa», «fiaschi di vino», ecc. E il brigadiere traduceva in una lingua burocratica e lontana, in una antilingua, da lui preferita perché ritenuta più importante: «locali dello scantinato», «eseguire l’avviamento dell’impianto termico», «quantitativo di prodotti vinicoli», ecc.
A dispetto della rigidità e della lontananza dagli usi comuni della lingua il burocratese si rivela dotato di forte capacità di espansione negli usi correnti, formule burocratiche si insinuano dappertutto. Quasi non facciamo più caso ai sostantivi stereotipati: accompagno, esito, esubero, immobilizzo, incartamento, inoltro, oblazione, reintegro, ripristino, riscontro, scorporo, subentro, utilizzo; ai verbi costruiti coi suffissi -are (attergare, contravvenzionare, defezionare, dimissionare, disdettare, incentivare, relazionare) e -izzare: monopolizzare, ospedalizzare, regionalizzare, zonizzare (e zonizzazione); ai termini e alle locuzioni di tipo tecnico: accusare ricevuta, compiegare (‛allegare’), declinare (le proprie generalità), evadere (una pratica), obliterare, protocollare, trattamento di quiescenza (‛pensione’), vidimare, vistare, visura. E a tanti altri burocratismi che non posso elencare per mancanza di spazio.
Possiamo farne a meno? Almeno in parte? Se ci proviamo, poco alla volta, la spinta a usare una lingua semplice e più bella può entrare nella testa di chi parla e di chi scrive. Leggo il foglio intitolato «Servizi di igiene urbana» diffuso dalla «Città di Lecce. Assessorato alle Politiche Ambientali» e da Monteco (la ditta incaricata della raccolta dei rifiuti). È farcito di avvisi come: «Posizionare gli appositi contenitori sul marciapiede di casa», «I Centri Comunali di Raccolta sono ubicati in viale Grassi», «Si possono conferire…», «Al primo conferimento è necessario esibire copia dell’ultimo avviso Ta.Ri.)», «Per ritirare la compostiera domestica …»; «Le seguenti condizioni possono comportare un sanzionamento». Ma all’improvviso il cuore si allarga alla speranza. Il volantino allegato dice «Grazie al tuo impegno ogni anno a Lecce i dati sulla raccolta differenziata migliorano! Abbiamo ancora bisogno del tuo prezioso contributo per andare avanti e dare più respiro alla città».
Tutti capiamo le ultime righe, semplici ed efficaci. Perché non scriviamo sempre così?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 24 novembre 2019]