Dopo un’Introduzione (pp. 7-24), nella quale, tra l’altro, Casella ci rammenta la “felice coincidenza”, per la quale “questo volume… esce nell’ 80° anniversario di vita dello Stato della Città del Vaticano e dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede” (p. 24), lo storico scandisce il suo racconto in sei parti, tante quanti sono gli ambasciatori di cui si tracciano i profili. Ma non bisogna pensare a dei veri profili a tutto tondo, a dei per così dire medaglioni. Certo, la peculiarità e il carattere di ciascun ambasciatore risultano chiari: De Vecchi, fondatore dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede, è fautore della creazione di un “clero nazionale”, ovvero sempre riconducibile nell’orbita del potere statale; Pignatti, più distaccato rispetto alla politica mussoliniana e, dunque, maggiormente gradito negli ambienti vaticani rispetto a De Vecchi; Alfieri, l’organizzatore della visita dei sovrani italiani in Vaticano il 21 dicembre 1939 e di Ribbentrop a Pio XII l’11 marzo 1940; gli dà il cambio Attolico, già ambasciatore in Germania, riprendendo il progetto già di De Vecchi di un “clero nazionale”, da realizzare attraverso la clericalizzazione dell’Azione Cattolica; Guariglia, diplomatico di carriera, definito da Casella “il più libero e il più cattolico degli ambasciatori d’Italia in Vaticano tra il 1929 e il 1943” (p. 18); e infine Ciano, ambasciatore solo dal febbraio al luglio 1943, mesi cruciali che precedono la fine del fascismo. Ma Casella, come si è detto, rifugge dai ritratti a tutto tondo, preferisce far parlare i documenti, ovvero i frequentissimi rapporti scritti che gli ambasciatori indirizzavano ai loro referenti (Ministro degli Esteri e Capo del Governo), le comunicazioni, i resoconti, le lettere, che fittamente mettevano in relazione le due sponde del Tevere e, su ognuna delle due sponde, i diversi palazzi. Oltre a ciò, lo storico fa uso delle memorie scritte dei protagonisti (De Vecchi, Alfieri, Guariglia e Ciano, gli “Appunti” del cardinale Pacelli, ecc.). Ne risulta un racconto articolato e complesso dei rapporti tra Stato italiano e Vaticano, avente sullo sfondo le vicende più importanti della storia d’Italia del quindicennio in esame. Il Concordato del 1929 anziché pacificare gli animi sembra suscitare una marea di polemiche sull’interpretazione della norma. Quale ruolo doveva avere la stampa cattolica (“L’Osservatore romano” che Casella definisce la “spina nel fianco del fascismo” p. 584)? quale l’Azione Cattolica? E chi doveva occuparsi, e in che modo, dell’educazione dei giovani? Vi erano o no degli ex popolari (De Gasperi) annidati nel Vaticano? E quali dovevano essere i rapporti tra Vaticano e nazismo? e tra Vaticano e fascismo, soprattutto dopo le leggi razziali del 1938? E che dire della guerra d’Etiopia, della Guerra di Spagna, e dell’entrata in guerra dell’Italia di Mussolini? I fatti della grande storia scorrono uno dopo l’altro nei resoconti degli ambasciatori, nelle direttive dei ministri e capi di Stato, nelle loro perenni polemiche; e tutti sembrano più che artefici, vittime di vicende che non sono in grado di controllare e delle quali riescono a tracciare appena una sommaria descrizione, un incerto resoconto; almeno così a noi pare, a noi che ragioniamo col senno di poi. Finché la seconda guerra mondiale giunge inesorabile, coi suoi orrori e le sue distruzioni, a riportare gli uomini alla giusta considerazione del proprio essere, a ridimensionare tutte le manie di grandezza che avevano portato l’Italia in un vicolo cieco. La caduta del fascismo del 25 luglio 1943 segna la fine di un governo inviso alla maggior parte degli italiani, ma non la fine della guerra, che ancora molti lutti porterà sul suolo italiano. Verso Verona è l’ultimo paragrafo del libro: si allude alla fine dell’ultimo ambasciatore fascista presso la Santa Sede, Galeazzo Ciano, ma anche ai mesi dell’agonia del regime che seguiranno quella fine.
E’ da notare che Casella non riporta solo i grandi eventi della storia, ma anche alcune note di costume, attraverso le quali è possibile farsi un’idea precisa della mentalità dei nostri nonni e della loro reazione psicologica in presenza di alcune situazioni particolari. Si legga, per esempio, il rapporto in data 1 settembre 1938 al Ministero degli affari Esteri dell’ambasciatore Pignatti che, prendendo spunto dalla censura inflitta dalle autorità ecclesiastiche alla Nave di D’Annunzio (ma già tutte le opere del pescarese erano all’Indice), lamenta l’intransigenza dei vescovi italiani sulla questione dei “costumi da bagno, come se fosse una specialità delle donne italiane di stare sulla spiaggia in costumi succinti” quando invece nelle spiagge francesi “s’incontrano donne con il petto completamente scoperto e indossanti costumi che richiamano, per le loro minuscole dimensioni, la leggendaria foglia di fico” (p. 252); o ancora la significativa lettera dell’informatore Carlo Costantini indirizzata in data 2 dicembre 1940 a una non meglio specificata “Eccellenza” (forse mons. Tardino o mons. Montini), che, scrive Casella, “ci dà un’idea … della sfrenata voglia di divertimento che la gente mostrava in quei primi mesi di guerra” (p. 403): “Devo qui rilevare la straordinaria frequenza del pubblico agli spettacoli cinematografici e di Varietà. Le sale, specie nei giorni festivi, sono gremite a tal punto da costringere spesso le Autorità a diffidare gli impresari… E’ poi ancora cosa impressionante ed incredibile ad un tempo vedere il pubblico abbandonarsi durante lo spettacolo ad una gioia pazzesca e a risa così clamorose e deliranti da chiedersi se siamo in pieno carnevale…” (p. 404). Come dire che nel corpo delle gente, nella sua voglia carnevalesca di ridere, rimaneva inscritta la volontà determinata di non cedere alle distruzioni della storia.
Gran messe di documenti, si è detto, quella presentata dallo storico, al quale il lettore specialista dovrà essere grato per l’accesso diretto alle fonti; ma, da un punto di vista più attento alle esigenza del lettore medio, si deve far notare all’autore, in conclusione, qualche eccesso di citazioni, spesso molto lunghe, con ripresa del discorso in note tanto numerose (ne ho contate più di 1300) quanto abbondanti. Che questo sia un segno che ancora i nostri professori universitari snobbino la divulgazione di alto livello, che tanto utile può tornare agli studi storici nel loro complesso?
[2009]