Qui il mio sguardo si arrestava, affascinato, sulle forme di un gigantesco capitello di pietra e mio padre diceva che quello era parte di un tempio, centinaia di anni fa, quando la nostra Taranto era il centro del Mediterraneo, mentre la gente spingeva ad entrare nella piccola chiesa dove era allestito il sepolcro… modesto in confronto con quelli, maestosi, del Carmine e di S. Giuseppe. Ma, nello stretto spazio del sacro, un altro punto era oggetto della mia attenzione crescente ed, anno dopo anno, sempre più consapevole. Poggiato sull’abaco del secondo capitello dorico sporgente dal muro della chiesa, un’altra pietra, di forma allungata, e, accanto, la lapide, forse di marmo, che raccontava una storia incredibile: quella pietra era stata portata da Cafarnao, addirittura dalla sinagoga dove, come racconta il Vangelo di Marco, il Cristo aveva iniziato la sua predicazione, cacciando gli spiriti immondi da un uomo e tutti si chiedevano cosa fosse questa “doctrina nova cum potestate”. Quindi quella pietra era stata davvero toccata dal passaggio del Signore e, come diceva la scritta, andava considerata come una reliquia?
Poi erano passati gli anni; da Milano, avevo iniziato la mia attività di archeologo ed il ricordo di quella pietra si era andata sovrapponendo ai resti reali della sinagoga di Cafarnao, che era stata scavata e restaurata, ed era meta dei pellegrini di Terra Santa. A Taranto si era realizzato intanto, negli anni settanta, il progetto di demolizione della chiesetta e degli annessi che, nei secoli erano serviti ad alloggiare i pellegrini che si recavano in Galilea: le due colonne del tempio dorico erano state ormai portate alla luce e svettavano, come un trofeo, accanto al Palazzo di Città.
Restava tuttavia in me la memoria di quelle antiche pietre e di quel capitello, posto in cima ad una scaletta, sopra il ballatoio, a sostenere umili vasi da fiori in terracotta: lo si poteva toccare, allora, e le sue dimensioni erano ingigantite dal passare degli anni. Ora le colonne sono scoperte e si possono vedere da ogni lato, come in altri luoghi della Magna Grecia, ma la fascinazione di allora non esiste più.
Negli ultimi mesi sono venuto più spesso nella mia città, invitato a tenere delle conferenze; ho ritrovato tanti amici ed a loro ho chiesto notizie di quella pietra proveniente dalla Palestina. Dapprima sembrava che nessuno ne sapesse niente, poi, grazie a Nello De Gregorio ed a Silvia De Vitis, le tessere del mosaico cominciano a comporsi in un racconto comprensibile, specie quando mi hanno fatto osservare che, proprio sull’abaco della colonna dorica, quella verso il Castello, è poggiata una pietra a forma di pilastrino, incongrua con il resto dell’abaco. Era allora quella la pietra di Cafarnao che i restauratori, forse non sapendo bene cosa farne, avevano fissato con la malta sopra l’abaco. Silvia mi aveva poi riferito che, in effetti, una lapide di marmo che menzionava Cafarnao e monsignor Ferdinando Bernardi, con una data intorno agli ultimi anni quaranta, era stata collocata nei depositi della Soprintendenza. L’arcivescovo piemontese doveva forse averla portata da un pellegrinaggio in Terra Santa negli anni trenta ma, in piena epoca fascista, non era prudente il riferimento ad una sinagoga, seppur toccata dai miracoli del Cristo, e perciò questa fu murata soltanto dopo la guerra, proprio nella chiesa della Trinità, da dove partivano per la Terra Santa i pellegrini. Nello De Gregorio mi ha fornito alcune foto del frammento che guarda, dall’alto dell’abaco, i passanti sulla via di Mezzo: si vedono delle decorazioni, ma non sembrano certo di età romana, forse medievali? Il calcare giallino sembra proprio quello di Palestina, ma le analisi archeometriche dell’IBAM-CNR potranno darci una risposta. Una microstoria tarentina dunque, tutta da ricostruire, anche in omaggio ad un nostro arcivescovo, Ferdinando Bernardi, amato dai tarentini che, affettuosamente, lo indicavano come Monsignor Giargianese, per il suo “esotico” accento del Piemonte. Nel 1961, ricordo di aver partecipato ai suoi funerali e mi rimase impressa la grande partecipazione e la commozione del nostro popolo.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 13 novembre 2019]
Ricordi meravigliosi d’infanzia descritti in modo stupendo dal Professor Francesco D’Andria.