Nel corso di un’intervista al “Messaggero”, alla domanda di Walter Bianco su che cosa distingue l’intelligenza artificiale da quella umana, Benanti risponde che la distinzione è data dal soggetto. Noi siamo qualcuno; la macchina è qualcosa. Noi abbiamo un’intelligenza generale; le macchine eseguono il compito per cui sono state programmate.
Ci si potrebbe permettere di integrare la risposta con la puntualizzazione che non solo noi abbiamo un’intelligenza generale, ma abbiamo una pluralità di intelligenze che nessuna macchina potrà mai possedere in maniera integrata e con le quali nessuna macchina si potrà mai confrontare.
Lo psicologo statunitense Howard Gardner ha individuato sette tipi di intelligenza: logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, cinestetica o procedurale, interpersonale, intrapersonale.
Successivamente ne ha individuate altre due, che sono l’intelligenza naturalistica e quella filosofico- esistenziale.
Dunque: se si può anche accettare che per una macchina sia possibile, o indispensabile, programmare un’intelligenza logico-matematica o linguistica o spaziale o cinestetica, e perfino un’intelligenza musicale, diventa oltremodo difficile ipotizzare che se ne possa programmare una interpersonale, oppure una intrapersonale, o una naturalistica, o una esistenziale.
Ma è proprio a questo punto che si stringe il nodo della differenza tra il soggetto uomo e l’oggetto macchina. E’ proprio a questo punto che la scelta della prima strada diventa obbligata. E’ al punto in cui si fa evidente che una macchina non può possedere quelle che sono le intelligenze essenziali per l’esistenza degli esseri nella loro individualità e dell’umanità nella complessità della sua composizione.
La civiltà, l’economia, il mercato, il progresso, l’evoluzione, la cultura, sono determinate sostanzialmente, essenzialmente, dall’intelligenza interpersonale e da quella intrapersonale. Tutte le altre sono applicazioni. Se si dovesse, consapevolmente o inconsapevolmente, scegliere la seconda strada, quella di lasciarsi dominare dai robot, allora bisognerebbe anche fare i conti con una mutazione inimmaginabile di tutte le strutture e le conformazioni della civiltà. Si dovrebbe anche rinunciare alla natura di soggetti, alle conformazioni dell’identità, ai profili di personalità. Ogni essere umano diventerebbe qualcosa smettendo di essere qualcuno. Diventerebbe qualcosa anche di meno delle macchine. Fantasma senza natura. Spettro vagante in un deserto di umanità. Potrebbe sembrare uno scenario catastrofico. Potrebbe. Ma tutto quello che accadrà sarà una conseguenza della scelta che faremo tra la prima e la seconda strada.
Non ci sarà la fine dell’umanità, dice ancora Paolo Benanti. Ma potremmo produrre la fine della classe media. Le macchine potranno sostituire l’uomo in alcune professioni: l’avvocato, per esempio, o il commercialista, in parte anche il medico.
Ma è proprio questa sostituzione che non ci piace, che ci fa paura.
Ci piace la macchina che sia d’aiuto all’uomo, quella che agevola la vita delle persone con disabilità, che permette di fare una diagnosi in breve tempo, il navigatore che ti permette di non ritrovarti disperso in una città.
Non vogliamo che sia una macchina ad insegnare a leggere, a scrivere, a far di conto al bambino che verrà domani, domani l’altro. Vogliamo il maestro con la sua passione.
Il progresso dell’uomo ha le sue leggi. Anche quello della tecnologia ha le sue leggi. Allora occorre trovare una sfera di significato in cui le leggi del progresso umano e quelle del progresso tecnologico possano convergere ed armonizzarsi. Forse questa sfera si chiama etica. Forse non si può chiamare che così.
Nel febbraio scorso, Papa Francesco ha incontrato Brad Smith, presidente di Microsoft. Durante l’incontro, Smith ha detto che, messo nelle mani sbagliate, ogni strumento può diventare un’arma se la potenza organizzativa dell’umanità non riesce a tenere il passo con la tecnologia stessa. Per garantire che le persone abbiano fiducia nella tecnologia, dobbiamo pensare oltre la tecnologia stessa; abbiamo bisogno di forti principi etici.
In fondo è una vecchia storia.
Ai versi 365-367 di Antigone, Sofocle dice che l’uomo è scopritore mirabile d’ingegnose risorse che ora al bene e ora al male rivolge.
Ma quando le ingegnose risorse vengono rivolte al male, possono produrre la disumanizzazione dell’umano.
In fondo è una vecchia storia.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 10 novembre 2019]