La curiosità sull’origine e sul significato dei toponimi, in special modo di quelli opachi, attira l’interesse degli studiosi e anche di dilettanti che, senza informazioni di tipo linguistico, si occupano dell’etimologia, spesso con il desiderio di dimostrare l’antichità e di nobilitare le origini di una località che sta loro a cuore. Occorre procedere con prudenza, senza accontentarsi di illusorie somiglianze con la lingua di oggi. Il nome Bari non ha nulla che vedere con il sostantivo baro ‘chi bara al gioco delle carte’; quel toponimo, ricordato come Barium dagli scrittori latini, come Bárion e Báris dai greci, risale al messapico, lingua prelatina indoeuropea che si parlava in una buona parte della nostra regione in un’epoca anteriore alla latinizzazione dell’Italia. Il significato corrispondeva a «casa», e anche «riparo, luogo munito, porticato». A volte i parlanti locali, quando vengono interrogati su un toponimo che usano abitualmente, si rifugiano in spiegazioni fantasiose lontanissime dalla realtà. Una bella località marina che si stende dalla periferia di Nardò fino al mare di Santa Caterina, con numerose e molto attrattive ville fantasiosamente moresche, è conosciuta come Le Cenate. L’origine del nome si collegherebbe alle ripetute cene che nella stagione estiva si svolgevano (e ancora si svolgono) in quelle ville, spiegano con qualche incertezza gli abitanti del luogo, se qualcuno li interroga. E invece no, le cene non c’entrano per nulla, l’etimologia è ben diversa (ne parlo in un articolo che ho scritto per festeggiare i settant’anni di un caro collega; quando il libro sarà a stampa il piccolo mistero sarà svelato, gli interessati potranno prenderne atto). Un toponimo in lingua italiana può dipendere anche dal fraintendimento del nome della tradizione dialettale. Sulla carta geografica della Sardegna è registrato Golfo Aranci, splendida località all’estremità nord-orientale dell’isola, a pochi chilometri da Olbia, con tesori naturalistici e preziose biodiversità. Aranci non potevano esserci, per il clima. Qualcuno assicura che il nome nasce dal naufragio, proprio in quelle acque, di una nave carica di arance. Si tratta invece di una italianizzazione impropria dell’antico nome dialettale Gulfu di li ranci, letteralmente «golfo dei granchi», lì abbondanti insieme ad altri crostacei (rancio o grancio significano ‘granchio’). (Queste informazioni fornisce un bel Dizionario di toponomastica stampato nel 1990 da UTET).
La stessa località a volte può essere definita in più forme, derivanti da basi diverse. Succede perché in numerosi territori d’Italia, da nord a sud, accanto all’italiano e ai dialetti vivono le cosiddette minoranze linguistiche: gruppi, più o meno ampi, che parlano una lingua materna diversa da quella della maggioranza degli abitanti dello stato, i quali hanno nell’italiano la lingua ufficiale. Oltre all’italiano, nostra lingua ufficiale, e ai tanti dialetti vivi e diffusi nella penisola, dal piemontese fino al siciliano, in territori più ristretti si parlano altre lingue: il francese in Val d’Aosta, il tedesco in Alto Adige, lo sloveno in Friuli, il ladino in certe valli dolomitiche, il catalano ad Alghero, l’albanese e il greco in alcune regioni meridionali (tutti conosciamo l’isola alloglotta del Salento, la Grecia salentina, da qualche decennio in risalita), ecc. Sono lingue parlate da gruppi di cittadini (italiani a pieno titolo e a tutti gli effetti) che, oltre alla lingua nazionale ed eventualmente al dialetto locale, conoscono e usano una lingua diversa. Lingua appresa spontaneamente, viva nella comunità d’origine, non studiata a scuola, né in corsi di lingua, né all’estero.
Una minoranza linguistica economicamente e culturalmente molto forte si trova in Alto Adige / Südtirol, territorio che dalla fine della prima guerra mondiale appartiene a pieno titolo allo stato italiano. Qui il bilinguismo italiano / tedesco è regolato da disposizioni legislative e da accordi internazionale, i toponimi sono ufficialmente designati in forma bilingue (Bolzano / Bozen, Brixen / Bressanone, Merano / Meran, Sibeneich / Settequerce ecc.). Alla comunità di madre lingua tedesca vengono garantite condizioni estremamente favorevoli nella scuola, negli uffici pubblici, nell’intera società altoatesina. Le diverse etnie presenti nel territorio (c’è anche una minoranza ladina) convivono da decenni, a volte tranquillamente, a volte con qualche tensione. Per una convivenza serena è fondamentale il rispetto reciproco. A questi principi non si ispirava una recente decisione del Consiglio provinciale di Bolzano che ha approvato un emendamento che per la prima volta cancellava la dizione di “Alto Adige” e di “altoatesino” dal testo di una legge. Non è un banale fatto linguistico, dietro quella delibera ci sono intenzioni politiche che indicano una precisa direzione proaustriaca (e antiitaliana) di quell’organismo provinciale. La toponomastica segna i luoghi e gli uomini che quei luoghi hanno abitato. È una testimonianza della storia, non si può modificare a piacimento o per scopi politici. Non a caso l’obbligatorietà dei toponimi italiani in Alto Adige è sancita da una sentenza della Corte Costituzionale, che ha convalidato l’efficacia dei nomi in vigore da cent’anni. Di fronte alla bufera che si è scatenata su vari giornali il governatore alto-atesino ha dichiarato che la delibera del Consiglio provinciale di Bolzano è nata da uno sbaglio, da un atto di sventatezza. E in effetti, pochi giorni fa, ecco la marcia indietro: «Il dietrofront di Bolzano: il nome Alto Adige resta», titola il Messaggero del 23 ottobre, p. 18 (in un articolo che spiega i dettagli della nuova, più conciliante, posizione assunta da quella assembla provinciale).
Tutto risolto? Definitivamente? Forse no. Certe posizioni hanno una lunga storia e non paiono destinate a sparire rapidamente. Vari elementi inducono a un certo pessimismo. Ci fu, poco più di un anno fa, la proposta di una «Commissione dei Sei», istituita dalla Provincia di Bolzano, che pure mirava a mettere gravemente in pericolo la toponomastica bilingue italiano-tedesca in Alto Adige, cancellando i nomi dei luoghi italiani dalla toponomastica ufficiale della Regione. Nell’inverno dello scorso anno in Austria si discuteva seriamente di dare agli abitanti dell’Alto Adige (/Sud Tirolo) di madre lingua tedesca e ladina una doppia cittadinanza, aggiungendo quella austriaca a quella italiana naturalmente posseduta. Non è una proposta estemporanea, nasce dall’accordo di governo tra il Partito Popolare, a cui appartiene il Cancelliere Kurz, e il Partito Austriaco della Libertà. Un modo sottile, fintamente innocente e inclusivo, di dirottare verso l’Austria l’orizzonte sociale e culturale di cittadini italiani. E infine ancora un tassello. Lo scorso anno a Vienna, al piano superiore del Museo Albertina, tutta una parete era occupata da un’installazione che nostalgicamente ricordava «I cambi delle frontiere intervenuti nel territorio dell’antico impero asburgico (1848-2006)»: vari colori indicavano i territori un tempo appartenenti a quell’impero, tra cui il nostro Alto Adige. Con un po’ di incredulità ho osservato attentamente quell’installazione. E mi sono chiesto quale è la genesi profonda di quel ricordo imperiale, forse un po’ fuori tempo.
In un’Europa percorsa da mille spinte disgregatrici quelli indicati sono segnali preoccupanti. I fenomeni linguistici si legano sempre a questioni sociali e politiche. Mi auguro che, di fronte a iniziative avventate che in futuro dovessero ripresentarsi, il nostro paese sappia respingere, con risolutezza che poggia su ragioni ben fondate, ogni mossa contraria alla saldezza dell’unità nazionale. Lingua e politica vanno insieme.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 10 novembre 2019]