di Antonio Errico
Fino ad un certo punto si è pensato e si è detto che la storia fosse scritta nei libri. Era vero. Il nostro rapporto con la storia avveniva esclusivamente attraverso di essi, con uno scarto di tempo che stabiliva una distanza dai fatti e, di conseguenza, riduceva la dimensione emotiva, il livello di partecipazione. Tutto quello che era fuori dai libri, non era storia. Poteva essere cronaca, più o meno significativa, ma non era storia. Quasi sempre la storia era qualcosa di lontano, una realtà vissuta da gente sconosciuta, che si verificava in situazioni anche incomparabili con quelle del tempo che si viveva, determinata da cause alle volte persino incomprensibili, che provocava effetti in alcun modo influenti sul presente. Banalmente si potrebbe dire che la storia ci riguardava esclusivamente come modello, ma non interveniva nella nostra quotidianità, non interferiva con i nostri destini. Il nostro sentimento della storia era un sentimento freddo che in alcuni casi mostrava anche profili di indifferenza.
Da un certo punto in poi le forme e gli strumenti della comunicazione di massa hanno completamente trasformato il nostro rapporto con la storia, forse anche il concetto che abbiamo di essa; sicuramente hanno cambiato il nostro sentimento nei suoi confronti.
La storia non è più soltanto quella che è scritta nei libri. Non c’è più quella distanza di tempo che rende possibile la freddezza del sentimento. Non solo: l’immediatezza con cui veniamo a conoscenza dei fatti alza polvere sui confini tra cronaca e storia, e la polvere confonde le differenze.
Allora forse non è del tutto azzardato sospettare che la cronaca non esista più. Che tutto diventi storia nel momento esatto in cui si verifica una comprensione di quello che accade, e quindi si riesce a rintracciare relazioni tra i fatti, a stabilire analogie e differenze, a riconoscere i processi che hanno determinato quell’evento, a intuire i riflessi che può avere nello spazio e nel tempo.