Le nostre esperienze non ci trovano e non ci lasciano indifferenti, per cui ci provoca sofferenza abbandonarle.
E’ questo il motivo per il quale la provincia ritorna frequentemente al passato.
Allora, provincia vuol dire anche luogo della memoria. Quando al centro tutto viene travolto e sepolto dai panzer del nuovo che avanza senza alcuna distinzione di qualità, la provincia rinnova costantemente la propria memoria.
La provincia pretende coraggio. Innanzitutto pretende il coraggio della scelta di rimanere in provincia. Anche quando si avrebbero possibilità di andarsene via, di sottrarsi ai suoi confini, alle sue limitazioni. Anche quando si avrebbero possibilità di cercare altre occasioni.
Così a volte viene da pensare che la provincia, la periferia, è un destino, che si sceglie qualcosa di predeterminato, che le scelte che si fanno sono già scritte nel sangue.
Certo, si ha consapevolezza che Lecce non è Berlino, né Londra, né Parigi, che non è nessun altro luogo. Si sa che la provincia qualcosa dà, qualcosa toglie, come qualsiasi altro luogo. Privilegio e castigo. Orgoglio e delusione. Ma si sceglie di restare senza fare il conto di quello che si guadagna e di quello che si perde. Caso mai si sente, si avverte quasi il dovere di rimanere per tentare di dare qualcosa, anche se di minima rilevanza, di poco significato. Forse non lo si fa neanche per se stessi. Forse lo si fa per quei compagni di strada che sono rimasti, sperando, tentando di dare qualcosa. Sono rimasti senza fare conti. Per scelta, per destino. O semplicemente per amore nei confronti di una terra.
Per esempio: si chiamava Rina Durante. E’ una di quelle che ha pagato per rimanere in provincia. Quando pubblicò “La malapianta” con Rizzoli, nel Sessantaquattro, aveva trentasei anni. Se avesse lasciato la periferia, se fosse andata nei centri di Milano, di Roma, dove si decidevano, e si decidono ancora, le sorti editoriali, avrebbe raggiunto altri livelli, avrebbe avuto maggiori fortune. Ma scelse di rimanere in periferia, a scrivere e a insegnare.
Si potrebbero fare altri nomi. Ma uno vale per tutti.
La provincia è un luogo strano, attraversato da contraddizioni, da esplosioni di energia e da sonnolenze profonde, da passioni di rivolte e da irrimediabili torpori, da concrete pacatezze e da astratti furori.
La provincia è fatalista. Pensa che il corso delle cose e le storie della vita non si possano cambiare, che si possa soltanto assecondare quello che accade, senza rammaricarsi o rattristarsi se quello che ci si aspetta non accade.
Pensa che quello che non accade lì, in quella periferia che Bodini chiamava infinita, non potrebbe accadere comunque, da nessuna parte.
Ci sono tempi in cui la provincia si ribella al suo fatalismo.
Non lo fa con un progetto; lo fa per istinto, oppure per rabbia, oppure soltanto perché si è stancata di replicare le rappresentazioni che dà di se stessa. Si ribella ma poi ritorna a quelle stesse storie, a quelle rappresentazioni alle quali si è ribellata, perché comprende che sono quelle le storie, le rappresentazioni che appartengono alla sua natura, alla sua cultura, che sono quelle le forme con cui con cui può esprimere autenticamente la propria esistenza.
Forse la funzione sociale, culturale, esistenziale della provincia, della periferia, consiste nel dimostrare costantemente che le faccende del tempo bisogna guardarle da una certa distanza per poterle comprendere nei loro significati fondamentali.
Si dice, a volte, che mentre il mondo cambia, la provincia rimane a guardare. (Ma dov’è il punto in cui finisce il mondo e comincia la provincia?) Per certi aspetti è vero. Mentre il mondo cambia, la provincia rimane a guardare per capire quale sia la direzione più coerente con le strade della storia che le appartiene.
Chissà se questo restare a guardare non si possa anche chiamare saggezza della provincia.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 27 ottobre 2019]