di Rosario Coluccia
Anche questa settimana rispondo alle sollecitazioni di lettori che scrivono al giornale. Questioni d’interesse generale e temi vasti, così seleziono le domande. Ricordo le regole. Il nome del mittente verrà indicato o omesso (rispettando la volontà di chi scrive) ma i messaggi vanno sempre firmati, non si potrà tener conto di scritti anonimi.
Questa settimana traggo spunto dalle osservazioni di un collega che insegna all’università del Salento. Donato Scolozzi, ordinario di matematica generale al dipartimento di Scienze dell’economia, osserva che il 1 ottobre 2016 papa Francesco, durante la messa allo stadio di Tblisi, ha tenuto l’omelia in italiano. È giustamente colpito: siamo in Georgia, solo pochissimi tra i presenti avranno potuto capire le parole del papa, che è poliglotta e avrebbe potuto usare un’altra lingua lì più nota. Si chiede: certo ci saranno state ragioni precise alla base di quella scelta linguistica, ma non sono chiare. E conclude: «viene da pensare, e lo faccio ormai da tempo, che doveva venire un argentino con origini italiane a tenere alto il valore della nostra bellissima lingua».
Nella scelta linguistica del papa ragioni di carattere generale si sommano a motivazioni legate alla personalità del pontefice.
La Chiesa cattolica ha nella Città del Vaticano il suo centro mondiale: da lì promana nel mondo il processo di evangelizzazione. Ne risulta che, accanto alla dottrina, la Chiesa svolge un ruolo di grande importanza anche per quanto riguarda la promozione della nostra lingua. In italiano stampa la maggioranza dei suoi scritti e pubblica l’«Osservatore romano», quotidiano a diffusione universale (al quale negli ultimi anni si sono affiancate edizioni settimanali o mensili in altre lingue), svolge l’insegnamento nelle proprie università e nei collegi pontifici che attraggono studenti di varia nazionalità, assicura le comunicazioni tra prelati di diversa origine e in genere tra coloro che hanno contatti con la vita ecclesiale, diffonde parole universali relative ad attività istituzionali, a titoli ecclesiastici, perfino all’abbigliamento clericale: conclave, confessionale, monsignore, nunzio, papalina, ecc. Veniamo all’episodio da cui siamo partiti. Nelle omelie pubbliche e nelle occasioni ufficiali i pontefici (al di là della loro nazionalità originaria) usano quasi esclusivamente l’italiano come lingua della comunicazione veicolare, orale e scritta; anche nelle visite all’estero, quando non adoperano la lingua del luogo. L’abbiamo visto con gli ultimi tre pontefici. Woytila, Ratzinger, Bergoglio, tutti stranieri, nei loro viaggi all’estero hanno usato spesso l’italiano, come ha fatto recentemente papa Francesco, prima in Corea del Sud e poi in Georgia.