Lecce mi avrà rivelato che possono anche esser sinonimi di fantasia leggera, d’eleganza folle e di grazia felice. L’intera città non è, per così dire, che una scoltura e un ornamento. Gli abbellimenti di maniera si attorcono ai balconi delle case, una folla di statuette contorte pesa sopra gli usci, si profilano colonnine dietro colonnine e frontoni dietro frontoni. Le chiese dispiegano facciate fantasticamente decorate di festoni d’astragali, di figurine, di cariatidi. Son coronate di statue, fiancheggiate di statue. Corpi che si flettono, braccia che s’arrotondano, drappeggi che si cancellano l’un l’altro, angeli che librano le ali. A Santa Croce, per esempio, questa complicata immaginazione confina col delirio[5].
Insomma ‒ commenta ‒ «è veramente un’orgia di ciò che dovunque altrove sarebbe chiamato cattivo gusto»[6], ma questo cattivo gusto – continua ‒ ribaltando quasi i giudizi precedenti,
è però troppo intenso qui, rivela un furore di capriccio troppo geniale perché la parola conservi il suo vero senso, tanto più che sopra questo rivestimento di candore cesellato, sfolgora una luce quasi orientale. E quando la fantasia si mantiene tanto viva, tanto poco affetta dalla decadenza, quando la proprietà delle strade lastricate, la freschezza dell’ombra e la dolcezza del sole s’accordano tanto felicemente con questo paradosso architettonico, la sensazione del cattivo gusto non può nascere neppure. L’occhio è ammaliato fino a essere abbacinato, lo spirito è preso fino al rapimento da questa ricercatezza di pietra che s’adagia come un merletto, come un ricamo su tutta la piccola città[7].
Un altro punto che emerge dall’interpretazione del barocco leccese da parte di Bourget e che viene qui indicato per la prima volta è il riferimento alla Spagna: «Qui si sognano musiche leggiere, mascherate, feste facili e voluttuose, una Spagna italianizzata e felice»[8]. Un altro, ancora, è l’importanza della pietra con la quale furono costruiti i palazzi e le chiese di Lecce, una pietra prelevata dalla cave della periferia e dei paesi vicini, particolarmente tenera e adatta alla lavorazione degli scalpellini. Lo mette in rilievo Bourget allorché parla della chiesa dei santi Niccolò e Cataldo:
Vi si giunge percorrendo un viale d’alti cipressi il cui nero colore fa risaltare la speciale tinta dorata che ha rivestito la pietra con la quale è costruita la chiesa, quella pietra di Lecce così friabile e così bianca, quando la si estrae dalla terra, che poi rassoda e ingiallisce, a quest’aria asciutta e leggiera, fino a rivestirsi d’una tinta quasi simile a quella del bel marmo rosso del Partenone[9].
E qui spicca anche il riferimento al colore della pietra, il colore dorato, che comparirà in una poesia di Vittorio Bodini dedicata a Lecce, dove, come vedremo, il barocco diventa la chiave interpretativa della città e dei suoi abitanti.
Ma spostiamoci adesso avanti nel tempo e dalla fine dell’Ottocento giungiamo a metà Novecento. Gli anni Cinquanta sono sicuramente il periodo più fervido della cultura leccese e salentina del secolo scorso e anche quelli più ricchi di testimonianze letterarie sulla città. Numerosi scrittori infatti dedicarono articoli a Lecce e ovviamente non poterono fare a meno di parlare del barocco. Qui mi limiterò ad alcuni esempi che mi sono sembrati i più significativi.
[…]
Ora, invece, vorrei soffermarmi su un libro famoso, il Viaggio in Italia di Guido Piovene, pubblicato nel 1957. Ebbene, nelle pagine dedicate a Brindisi e Lecce, dopo avere accennato più in generale alle condizioni socio-economiche del Salento, alla sua «economia povera», al «dominio quasi esclusivo dell’attività agricola»[10] (siamo, non dimentichiamolo, negli anni Cinquanta), si sofferma sul capoluogo salentino, che è «incantevole»[11] e «conserva una qualità signorile, quasi di salotto distinto dai servizi del circondario»[12]. E inevitabile, a questo punto, è il riferimento al barocco, per cui «Lecce è celebre»[13], caratterizzato, anche secondo Piovene, da un gusto teatrale, scenografico:
Se si entra nella parte vecchia [della città], le molte chiese barocche e i palazzi barocchi, ora di faccia ora di sghembo, in piazzette e stradine, e disposti tra loro in angoli di gusto scenico, si direbbero una serie di piccoli teatri. Tutto sembra disposto e ornato per un lieve gioco teatrale: una commedia di Goldoni non vi stonerebbe; facciate di chiese, palazzi e i loro effetti combinati, tramandano attraverso i secoli un animo, direi, squisitamente provvisorio, quasi dovessero durare una sera sola[14].
Ma questa è solo la premessa, per così dire, dell’interpretazione del barocco leccese da parte di Piovene, che – scrive ‒ «è un barocco speciale, e non ha nulla a che vedere con quello di Roma, né con quello ardente e chimerico di alcune città siciliane, e nemmeno di altre cittadine pugliesi come Martina Franca»[15]. Materia fondamentale di questo stile è «la pietra tenera di queste parti, più simile all’argilla che al marmo, perché molle, tale da non porre limiti all’estro popolare ed al gusto del minuzioso, trattabile anche con la pialla e l’accetta, adatta alla bravura degli artigiani»[16]. E qui, come si vede, ritroviamo il motivo della docilità della pietra locale già messo in rilievo da Bourget, da Antonicelli e da Puccini.
Ma Piovene va oltre e parla di un’altra caratteristica fondamentale del barocco leccese, che «non è strutturale, tanto che nelle chiese, accetta per lo più la forma delle chiese romane del secolo XVI; ma la nasconde sotto una cascata d’ornamenti, la quale potrebbe vestire qualsiasi stile lasciandolo inalterato […]. Chiese e palazzi – continua ancora ‒ sono come ravvolti dentro una tonaca di pietra lavorata come lo stucco, senonché la pietra tenera, esposta all’aria, prende un bel colore dorato»[17], dove, come si vede, ritorna anche il riferimento al colore della pietra, anche questo già indicato da Bourget.
Dopo cita rapidamente i principali monumenti della città, «il grande capriccio di Lecce» (così lo chiama), che «va da San Matteo al Duomo, da Santa Maria del Rosario a Santa Maria delle Grazie, da Santa Chiara ai palazzi della nobiltà, fino al Palazzo del Governo ed a Santa Croce che è il culmine»[18]. E si intrattiene proprio sulla basilica di Santa Croce:
La facciata di questa chiesa gronda di ornati, come se gli esecutori non si decidessero mai a staccarne la mano: e i molti descrittori non si stancano di scoprirvi particolari, le aquile, i draghi, le scimmie, i santi, i turchi, le colonne tortili, le balaustre a trafori, i riccioli, i fiori, le frutta, i nastri svolazzanti. Pure quella facciata dà un’impressione di armonia, e come tutta Lecce incanta[19].
Piovene non tralascia di rivolgere attenzione anche agli interni delle chiese leccesi che sono «saloni bianchi, e anche qui l’architettura sembra richiedere qualche cosa di più. Sono come fondali – continua – e diventano splendidi coi paramenti, con gli argenti, e con i ceri accesi su quello sfondo di candore»[20], dove ritorna il motivo del gusto teatrale che caratterizza il barocco leccese messo in rilievo all’inizio.
Alla fine lo scrittore accenna a un’altra chiesa di Lecce, San Nicolò e Cataldo, già descritta da Bourget, da lui definita «la più bella chiesa di Lecce», che però è fuori «dalla cornice del barocco leccese»[21] in quanto chiesa di struttura normanna.
Ulteriori elementi di riflessione aggiunge, qualche tempo dopo, un illustre storico dell’arte, saggista e teorico del restauro, nonché raffinato scrittore, Cesare Brandi che nel suo libro Pellegrino di Puglia, apparso nel 1960, dedica alcune pagine a Lecce intitolandole Lecce gentile. Ebbene, anche Brandi mette in rilievo la singolarità del barocco leccese che mescola elementi e motivi esterni con il gusto locale. Anche nella facciata di Santa Croce gli architetti
fanno questa mescolanza incredibile, di motivi normanni e di fregi classici: le cornici e il rosone stesso, quasi unico a quel tempo, lo testimoniano. È proprio da motivi del genere – continua ‒ che si partono i ‘platereschi’ leccesi. Di lì un gioco di trafori, di puttini che sembrano ranocchi spellati e reggono lettere a volute e viticci, quasi come quelle ricamate a punto sodo nei corredi nuziali delle nostre nonne[22].
Poi si sofferma su un particolare, «una specie di punto nevralgico»[23] (così lo definisce) dell’architettura leccese che gli serve per fare una riflessione più ampia: le mensole che reggono i balconi, che da Roma in giù mai avevano assunto «una preminenza così precisa»[24]. Che significa questo per Brandi? Che a Lecce
data la larghezza ridotta delle strade, le facciate si vedono da sott’in su e che perciò la cosa più in vista sono le mensole del balconi. Questo particolare produce un fatto nuovo e soprattutto d’una applicazione estesissima. L’architettura degli esterni diviene, relativamente al vano della strada con cui fa sistema, un’architettura d’interno, donde il senso architettonico straordinario che produce Lecce nell’osservatore che intuitivamente realizza di trovarsi sempre interno ad un’architettura[25].
Qui, insomma ‒ commenta l’autore ‒ «l’urbanistica fonde nell’architettura»[26].
Il punto più alto, la sublimazione dell’architettura leccese che è ad un tempo d’esterno e d’interno si ha, secondo Brandi, ancora una volta in Piazza del Duomo:
Non meraviglia che la Piazza del Duomo sia come un grande cortile, a cui dà accesso un grande portone: ma scoperto come una terrazza. Non è, intendiamoci, il quadriportico antistante della Chiesa, e in questo senso è difficile pensare un’accozzaglia di edifici più diversi: ma rappresenta la sublimazione di questa architettura che è ad un tempo d’esterno e d’interno. La Piazza del Duomo è davvero una meraviglia da celebrare fra le meraviglie italiane, anche se nessuno dei suoi monumenti, preso a sé, risulti eccezionale. Ma i compensi misteriosi e precisissimi che passano fra l’altezza del Campanile e la larghezza del Sagrato, il cannocchiale dell’ingresso e quella specie di scenario solido che è la loggetta di fondo, determinano un così sicuro addentellato di volumi, una frattura così salutifera degli usati allineamenti prospettici, che non si riesce mai a cogliere sul fatto la ragione di quel prodigioso, serrato equilibrio che la Piazza sviluppa[27].
Anche un altro grande saggista e famoso anglista, Mario Praz, fu incantato dal barocco leccese a cui dedicò due articoli nel 1969 e nel 1971, poi raccolti nel volume Il giardino dei sensi e più di recente in Bellezza e bizzarria. Anche Praz mette in rilievo la peculiarità del barocco leccese che «è diverso da quello di ogni altra parte d’Italia»[28], e sostiene, come Brandi, che a Lecce l’architettura sembra architettura d’interni:
Han qualcosa di intimo questi palazzi, come se gli ornamenti che espongono sulla strada fossero un arredamento interno, come se le cornici delle finestre fossero cornici di specchio e le figure umane e teriomorfiche che sostengono i balconi fossero telamoni di consolle[29].
Anch’egli mette in rilievo il carattere non strutturale di questo stile, in quanto la sagoma delle chiese leccesi è prebarocca:
A eccezione di San Matteo, come si dirà, nessuna facciata, nessun interno di chiesa è barocco nel senso proprio della parola, di stile dinamico e drammatico, ma se mai in quel senso di acervo di ornamenti, di profusa cornucopia di cose preziose e vistose per cui si suol dire barocco anche l’Adone del Marino[30].
A differenza di altri visitatori, però, Praz esclude l’influenza spagnola: «Il cosiddetto barocco leccese ‒ scrive ‒ è una propaggine del tardo Rinascimento italiano, soprattutto dell’Italia del Nord. I ricchi altari decorati di sculture, le colonne vitinee, i fregi e gli ornati come quelli nelle opere d’oreficeria […] si trovano in Italia prima che in Spagna»[31]. E a riprova cita l’architetto Gabriele Riccardi che «nel 1548 nella parte inferiore della facciata di Santa Croce instaurò una bizzarra coabitazione di motivi normanni e fregi classici, con uno sfruttamento puramente ornamentale di disparati linguaggi architettonici»[32]. E poco dopo così commenta:
Quell’aspetto festoso, addirittura orgiastico dell’architettura leccese artigianale ha, come s’è detto una certa affinità con la pasticceria pittoresca e coi fuochi d’artificio, altra manifestazione eminentemente meridionale […]. Anche certi elementi decorativi come, come le colonne angolari, delle case, i balconi mensolati, sorretti da figure come polene di navi, hanno un’uniformità di decorazioni da fiera, da carosello[33].
Ma il barocco non è stato soltanto oggetto di ammirata attenzione da parte di scrittori giunti per visitare Lecce, ma ha rappresentato anche, per il maggiore poeta leccese del Novecento, Vittorio Bodini, la chiave di lettura della sua città. L’interpretazione di Bodini è contenuta organicamente, a parte gli accenni in altri scritti, in una prosa intitolata proprio Barocco del Sud, apparsa nel 1950. Essa quindi precede cronologicamente tutti gli scritti che abbiamo citato finora, a parte quello di Bourget. È curioso, fra l’altro, che questo scritto doveva costituire il testo per un documentario sul barocco leccese, realizzato dal regista parmense Antonio Marchi sempre in quell’anno, dal titolo Cantarono nel ‘600, che finora purtroppo non è stato possibile rintracciare.
Qual è allora il senso complessivo della sua interpretazione? Ecco, Bodini definisce Lecce «una città del Seicento»[34], a causa del predominio assoluto del barocco. Ma egli non si riferisce soltanto, si badi bene, al barocco come fenomeno storicamente determinato, che pure caratterizza lo stile architettonico delle chiese e dei palazzi di Lecce. Qui il barocco è inteso, sulla scia del saggista spagnolo Eugenio d’Ors, come categoria che si oppone al classico e che trascende il tempo e anche il mondo delle arti. Non a caso esso si estende dalle arti e dall’architettura all’artigianato, ma anche alla morfologia della natura salentina (il barocco «naturale» della «scontorta vegetazione» d’ulivi e di fichi d’India»[35]), nonché all’anima stessa degli abitanti di Lecce, «ai loro astuti ideali e gesticolamenti»[36].
Anche per Bodini, un ruolo decisivo per la nascita «di questo assurdo miracolo del barocco leccese, sorto con caratteri propri ed inconfondibili in una città così separata e lontana dai centri vivi dell’arte» è stato svolto dalla pietra locale con cui sono stati edificati le chiese e i palazzi della città:
Santi di tufo vegliano sulle mura della città a guardia del loro secolo. Lecce è tutta costruita in questa pietra porosa che si estrae dai dintorni e che appena tagliata ha la morbidezza e il colore della polpa di banana. Un temperino può scolpirla, e questa docilità ad assecondare le più estrose richieste dell’immaginazione non avrà mancato di avere un effetto decisivo sulla nascita di questo assurdo miracolo del barocco leccese, sorto con caratteri propri e inconfondibili in una città così separata e lontana dai centri vivi dell’arte. È probabile che una materia di maggiore resistenza sarebbe stata una bara per una fantasia così irrequieta e volubile, avvezza per lo più a bruciare i propri fantasmi prima ancora di realizzarli[37].
Ecco allora che il barocco leccese diventa, per lo scrittore, una condizione dello spirito in cui si riflette un disperato senso del vuoto, un horror vacui, che si cerca di colmare con l’esteriorità, l’ostentazione, l’oltranza decorativa, ma anche con certi atteggiamenti visti come altrettanti modi per sfuggire al sentimento del negativo che si avverte «in questa estrema pianura dove l’Europa ha termine». Da qui la lotta incessante tra vuoto e pieno, tra luce e ombra, che si volge sulle facciate degli edifici barocchi di Lecce e che allude a quella, ben più concreta, tra la vita e la morte, tra l’esistere e il suo contrario:
Da questo terreno è nata in un supremo momento di grazia, poi venuta a mancare, una complicata foresta di figure e di simboli destituiti di senso, al di fuori d’una frenetica eleganza in cui un’intera popolazione non priva di sangue arabo e aragonese e più remotamente greco, ha giocato tutte le sue carte, gareggiando col caso nel creare un numero infinito di combinazioni d’una lucidissima incoerenza.
Guardate come neanche il più piccolo spazio è lasciato libero: il vuoto e il troppo semplice si direbbe che repugnino all’artefice quasi sempre anonimo di questi prodigi, in cui non c’è esagerazione che non sia prontamente ricondotta nei confini di un’abile finezza[38].
Una delle caratteristiche principali del barocco leccese, per lo scrittore, è la ricchezza dei balconi, ricchi di stravaganti figurazioni e ornamenti come le facciate delle chiese:
E balconi, un’infinità di balconi, in cui un assortito bestiario favoloso e domestico, grifoni, draghi, chimere, capre, asini dalle gorgerine inamidate, con assoluta indifferenza è messo accanto a figure di monacelle, avventurieri spagnoli, angeli, occhialuti notai, ragazzetti, dame dai seni a coppa di gelato. Tutto questo popolo continua a spiare il transito delle generazioni per le candide vie dove il tufo mette toni dorati affiorando dalle screpolature dell’intonaco[39].
D’altra parte, la stessa città di Lecce, più che un luogo della geografia, è per lo scrittore «una condizione dell’anima», dove sembra «s’arrivi solo casualmente, scivolando per una botola ignorata della coscienza»:
Non si riesce a capire com’abbia fatto il Seicento a scavalcare queste terribili inerzie dello scirocco, e a scoprire la verità dell’arte gettandosi a capofitto nei più deprecabili errori. L’arte è nata nel punto più incredibile: nel divertimento spinto al suo parossismo, alla frenesia. Ed è che nel duello fra l’angoscia del nulla e il cieco impulso a sottrarvisi, l’attività creatrice ha oltrepassato il proprio stimolo, liberando con quel “di più” una fantasia pura e invaghita della libertà casualmente acquistata. Ecco perché in presenza di questi tufi squisiti si ha fermamente il sospetto che quest’arte sia meno al servizio di Dio che del suo Avversario[40].
Questa interpretazione è alla base anche di alcune poesie e dei racconti di Bodini ambientati nella sua città. Vorrei fare un solo esempio per tutti: la poesia intitolata proprio Lecce, tratta dal suo secondo libro di versi dal titolo Dopo la luna, del 1956, dove ritornano tutti i motivi presenti nella prosa esaminata: il colore dorato della pietra locale che si riflette nel cielo; le fantasiose, bizzarre figure collocate sulle facciate degli edifici e delle chiese leccesi; l’horror vacui:
Biancamente dorato
è il cielo dove
sui cornicioni corrono
angeli dalle dolci mammelle,
guerrieri saraceni e asini dotti
con le ricche gorgiere.
Un frenetico gioco
dell’anima che ha paura
del tempo
moltiplica figure,
si difende
da un cielo troppo chiaro.
Un’aria d’oro
mite e senza fretta
s’intrattiene in quel regno
d’ingranaggi inservibili fra cui
il seme della noia
schiude i suoi fiori arcignamente arguti
e come per scommessa
un carnevale di pietra
simula in mille guise l’infinito[41].
Ma vorrei terminare questo mio contributo, citando la lirica di uno dei maggiori poeti spagnoli del Novecento, Rafael Alberti, grande amico di Bodini che tradusse le sue opere poetiche in italiano, intitolata proprio Barocco leccese, apparsa in rivista nel 1986, nella traduzione di Francesco Tentori:
Portami al sud al sud, all’aria aperta
della sua grazia soleggiata e pura.
Lasciami nell’orto,
nel verziere fiorito
del suo alto giardino rinverdito,
bizzarra agricoltura,
fonte e ricciuto mare di pazzia,
meraviglia
della più luminosa architettura.
Là sognerò, perso anch’io nel delirio,
d’essere una colonna innamorata,
ardito capitello risplendente,
di foglie coronato,
una voluta di acanto rotante,
cariatide infuocata,
leone che rovina,
uccello la cui rotta è sconosciuta,
cornice, basamento
della più alta gloria,
levata sulle lamine del vento[42].
Qui c’è appunto
l’immaginazione del poeta che sembra scatenarsi davanti ai monumenti barocchi
di Lecce fino al delirio e all’immedesimazione negli elementi architettonici e
nelle figure che li caratterizzano.
Note
[1] J. H. von Riedesel, Nella Puglia del ‘700 (Lettera a J.J. Winckelmann, 1765), a cura di T. Pedio, Cavallino di Lecce, Capone, 1979, p. 80.
[2] G. Ceva Grimaldi, Itinerario da Napoli a Lecce, a cura di E. Panareo, Cavallino di Lecce, Capone, 1981, p. 103.
[3] Ibid.
[4] P. Bourget, Sensations d’Italie, Paris, Alphonse Lemerre, 1891. Si cita dalla trad. it., Sensazioni d’Italia, Milano, Morreale, s. d. ma 1927, p. 172.
[5] Ibid.
[6] Ivi, p. 173.
[7] Ibid.
[8] Ibid.
[9] Ivi, p. 176.
[10] G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 196613, p. 609.
[11] Ibid.
[12] Ivi, p. 610.
[13] Ibid.
[14] Ibid.
[15] Ibid.
[16] Ibid.
[17] Ibid.
[18] Ivi, p. 611.
[19] Ibid.
[20] Ibid.
[21] Ivi, p. 612.
[22] C. Brandi, Lecce gentile, in Id., Pellegrino di Puglia, Bari, Laterza, 19772, p. 102.
[23] Ivi, p. 111.
[24] Ibid.
[25] Ibid.
[26] Ibid.
[27] Ivi, p. 112.
[28] M. Praz, Barocco leccese, in Id., Bellezza e Bizzarria. Saggi scelti. Milano, Mondadori, 2002, p. 923.
[29] Ibid.
[30] Ivi, p. 924.
[31] Ibid.
[32] Ibid.
[33] Ivi, p. 926.
[34] V. Bodini, Barocco del Sud, in «Letteratura/Arte contemporanea», a. I, n. 6, novembre-dicembre 1950, pp. 52-54, poi col titolo Psicologia del barocco leccese in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 marzo 1951; ora in Id., Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa, 2003, p. 79.
[35] Ivi, p. 80.
[36] Ivi, p. 79..
[37] Ivi, p. 80.
[38] Ivi, p. 81.
[39] Ivi, p. 82.
[40] Ivi, p. 83.
[41] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), a cura di O. Macrì, Milano, “Oscar” Mondadori, 1983, p. 123.
[42] R. Alberti, Barocco leccese, in «l’immaginazione», gennaio-marzo 1986, n. 25-27, p. 1.
[ In La Compagnia della Storia. Omaggio a Mario Spedicato, tomo II, a cura di G. Caramuscio, Lecce, Edizioni Grifo, 2019, pp. 1083-1094.]