Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XVIII

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Il tempo. La condizione umana e il tempo secondo Francois-René de Chateaubriand, Genio del Cristianesimo,  Bompiani, Milano 2008, p. 171: “L’uomo è sospeso nel presente, tra il passato e il futuro, come su uno scoglio tra due abissi; dietro e davanti a lui, tutto è tenebra; a malapena scorge qualche fantasma che, risalendo dal fondo dei due abissi, nuota un istante sulla loro superficie, e poi sprofonda di nuovo.”

 

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La bellezza, secondo Marc Fumaroli, Parigi-New York e ritorno, p. 391: “La bellezza non è un assoluto come il sublime: è una qualità naturale che ogni volta, secondo il luogo, le circostanze e i destinatari, lo spirito ottiene per una strada diversa che le regole non bastano a definire in anticipo; essa risponde a un istinto universale della natura umana che, privata di quel piacere o impossibilitata a conoscerlo, si amareggia e si inselvatichisce. Questa vecchia verità è sempre giovane, anche se richiede troppo tatto, spirito e generosità per non essere sconfessata con disprezzo dallo spirito di geometria, soprattutto quando si unisce a quello di lucro e alla megalomania.”

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Certo, anche le letture sono degli esercizi, la mia antropotecnica, per dirla con Sloterdijk.

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Lo stile migliore, secondo Marc Fumaroli, Parigi-New York e ritorno, cit., p. 403: “… lo stile migliore, quello che ha il potere di far sorgere e insediare il divino nelle opere degli uomini.”.

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Quando il potere è giusto. Scrive Noam Chomsky, Capire il potere, Marco Tropea Editore, Milano 2002, p. 263: “Ma c’è un principio che mi piacerebbe fosse divulgato ed è che ogni forma di autorità, di dominio e di gerarchia, in sostanza ogni struttura autoritaria, deve fornire la propria giustificazione, perché non esiste una giustificazione a priori. Per esempio, se impediamo ai bambini di attraversare da soli la strada si tratta di una situazione autoritaria, e la dobbiamo giustificare. In questo caso la si può giustificare. Ma l’onere della prova per ogni azione autoritaria compete sempre a chi la esercita.”.

Come non essere d’accordo con  Chomsky? E tuttavia altrettanto facile è l’obiezione, e cioè che nella storia dell’umanità ogni potere, anche quello giudicato poi il più abietto, ha sempre trovato e predicato la propria giustificazione.

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Paracusia. Il vento muove gli alberi e la sensazione uditiva evoca in me scenari marini, onde che si frangono sulla spiaggia. E’ una paracusia, dice il medico.

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Lo sdoppiamento è alla base della recitazione drammatica. Lo deduco da quanto scrive Richard Wagner, La mia vita, 2 voll., Introduzione e traduzione a cura di Massimo Mila, UTET, Torino 1960, p. 372, in occasione del suo primo discorso pubblico, un’orazione funebre in onore di Karl Maria von Weber: “Era successo, infatti, che dopo aver cominciato il mio discorso a voce alta e distinta, ero stato per un momento così intensamente colpito dall’effetto quasi pauroso prodotto su me stesso dalla mia voce, dal suo suono, dal suo accento, che, in una specie d’estasi, come mi sentivo parlare, così mi parve anche di vedermi di fronte alla folla in ascolto, che tratteneva il respiro, e mente mi sdoppiavo a questo modo, mi lasciavo completamente vincere dall’interesse appassionante del fenomeno: vedermi agire davanti a me, come se fossi io quello che, d’altra parte, si trovava lì a parlare.  Non si trattò affatto di panico o di distrazione; ma dopo la prima frase, ch’era andata benissimo, intervenne una pausa così sproporzionata, che il pubblico, vedendomi star lì con sguardo pensoso e imbambolato, non sapeva più che pensare di me. Solo il mio stesso silenzio e la tacita immobilità intorno a me mi ricordarono che ero lì per parlare, non per ascoltare; ricominciai subito e dissi il mio discorso fino alla fine, con espressione così fluente che il celebre attore Emil Devrient mi assicurò d’essere stato quanto mai impressionato e stupito non solo in qualità di spettatore d’una tra le più commoventi cerimonie funebri, ma anche dal punto di vista della recitazione drammatica.”

Sentirsi e vedersi: tale sdoppiamento mi pare prerogativa essenziale per chi parla in pubblico, oltre che per l’attore in genere, poiché gli consente, sentendosi e vedendosi all’opera, di vegliare su se stesso e di migliorare l’eloquio e la qualità della comunicazione. Lo sdoppiamento è alla base della recitazione drammatica.

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Che cos’è una concezione artistica. Ce lo spiega Richard Wagner, La mia vita, 2 voll., Introduzione e traduzione a cura di Massimo Mila, UTET, Torino 1960, p. 643: “… ‘concezione artistica’. Intendo designare con questo nome l’azione che le impressioni della vita esercitano sull’animo nostro: esse ci tengono a loro modo prigionieri, finché noi ce ne liberiamo completamente grazie al processo di liberazione individuale delle forme interiori dell’anima, forme che non vengono in alcun modo prodotte da quelle impressioni esterne, ma ne sono soltanto eccitate e scosse dal loro profondo sonno, cosicché l’immagine artistica non ci appare in nessun modo come l’effetto delle impressioni che la vita ci fornisce, bensì, al contrario, una liberazione da queste impressioni.” Sarà utile ricordare che Wagner comunica questa sua concezione artistica a Berlioz, che così reagisce:  “A questo punto Berlioz ebbe un sorriso d’intelligente condiscendenza, e disse: ‘Nous appelons cela: digérer’”.

Liberarsi dalle impressioni prodotte dal vivere, questa è l’arte. L’opera di un artista è il prodotto di questa liberazione. Stando a Berlioz, un modo per ‘digérer’. Quale ruolo spetterà dunque al cosiddetto fruitore d’arte? Il pensiero corre a Piero Manzoni e alla sua Merda d’artista (1961).

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Il caso e la grazia. Nelle memorie di Richard Wagner, La mia vita, cit. leggiamo il resoconto di come tra debiti, fughe, contrasti familiari, viaggi, incomprensioni, litigi, ecc., sia nata la sua opera. È come se Wagner volesse suggerirci che essa è l’opera del caso, con cui egli è – dice – “in buoni rapporti, non già con la fortuna”. A p. 833 racconta: “Quando cominciò un nuovo giro della roulette, gli

dissi tranquillamente: “Uscirà il numero 11”. E così avvenne. Quindi fornii nuovo alimento alla meraviglia per quella felice coincidenza, annunciando per la prossima giocata il 27. Ricordo che m’invase una specie di rapimento estatico. Il numero uscì puntualmente ed allora il mio giovane amico, assolutamente esterrefatto, mi consigliò col massimo calore di puntare sui numeri che prevedevo. Non posso fare a meno di ricordarmi ancora della placida, caratteristica estasi con cui gli spiegai che, appena avessi messo in gioco il mio interesse personale, il mio dono sarebbe svanito. Mi allontanai dalla tavola da gioco, e con un bel tramonto ci rimettemmo in cammino per Biberich.”

Perché ho tratto questa citazione? Wagner mi ha ricordato un episodio della mia giovinezza, avvenuto nel periodo di Natale, al tavolo da gioco (bacara?) in casa di amici. Dopo molte puntate, non avevo sbagliato un colpo e mi ero ritrovato in mano una mazzetta di cartamoneta che mai avevo sognato di possedere. Ma fu quando mi fermai per contare i soldi (avevo circa 600 mila lire),  e contemporaneamente cominciai a pensare a come li avrei spesi, mentre mia sorella già pregustava il regalo che le avrei fatto e mi suggeriva di smettere di giocare, ecco, fu allora, mentre si faceva avanti con prepotenza, ma anche improvvidamente, “il mio interesse personale”, che il mio “dono” svanì. Continuai a giocare e persi tutto, anche le 50 mila lire con cui mi ero presentato al tavolo da gioco; e così anche mia sorella rimase a bocca asciutta.

Come si nota, non ho avuto alcuna fortuna, ma per un istante sono stato toccato dalla magia del caso. Ma non ne parlo solo per rievocare un ricordo personale. Mi interessa l’imponderabile che è nel caso. Il caso è uno stato di grazia, dal quale può nascere un’opera grande (come una grande vincita), sempre che lo si sappia riconoscere e assecondare, mai tirando in ballo il proprio interesse; nel qual caso l’opera abortisce e si perde tutto.

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La divina dimenticanza. Citazione da Martin Buber, I racconti dei chassidim, in op cit., p. 606: “Perché bisogna che impari prima tutto per poi dimenticare tutto? (…) Se non ci fosse la dimenticanza l’uomo penserebbe continuamente alla propria morte e non costruirebbe case e non intraprenderebbe nulla. Perciò Dio ha posto nell’uomo la dimenticanza…”.

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Nulla. Citazione da Martin Buber, I racconti dei chassidim, in op. cit., p. 729: “Nulla. A Rabbi Ahzon fu chiesto che cosa avesse imparato presso il suo maestro, il grande Maggid. ‘Nulla’ rispose. E quando fu sollecitato a spiegarsi, aggiunse: “Ho imparato il ‘nulla’. Ho imparato il senso del nulla. Ho imparato che io non sono nulla e che pure sono’ “.

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Barocco. Per capire la religiosità meridionale e la mentalità barocca, ottima risulta la lettura di Jean-Michel Sullmann, Santi barocchi, Argo, Lecce 1996. A p. 391 trovo una buona indicazione di metodo:  “Del resto non è compito dello storico giudicare se un cadavere può restare esposto senza decomporsi e continuare a emanare un odore soave. Egli deve semplicemente constatare che in età moderna tale credenza non era messa in dubbio, e cercare di scoprirne il significato in quel sistema di rappresentazione complessa che è la santità.”

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Viaggio. Il tempo dell’attesa, quando i bagagli sono pronti con qualche anticipo e non si ha nulla da fare nel luogo che si sta lasciando, per intraprendere un viaggio; tempo disutile, sospeso, incapace di accogliere il pensiero, poiché il pensiero, come la persona, è qui e non è qui, vive proiettato nella dimensione di un viaggio programmato ma non ancora iniziato, che potrebbe, all’ultimo minuto, essere impedito per un motivo qualsiasi. Allora occorre rendere utile il tempo disutile, scandirlo e non lasciarlo sospeso, riempirlo delle faccende usuali, benché, nella circostanza, appaiano pretestuose. Bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa, per impedire al pensiero di vagare, riconducendolo alla realtà dei preparativi per la partenza.

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Sulla differenza tra scienza e lettere e arti. Estraggo da M. Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo, Einaudi, Torino 2013, p. 57, la seguente citazione: “In questo processo sarebbe sbagliato attribuire funzioni identiche alle scienza e alle lettere e alle arti. Proprio l’aver dimenticato di distinguerle ha contribuito alla confusione che ai nostri giorni prevale nell’ambito della cultura. Le scienze progrediscono, così come la tecnica, annientando ciò che è vecchio, antiquato e obsoleto; in questo ambito il passato è un cimitero, un mondo di cose morte e superate dalle nuove scoperte e invenzioni. Le lettere e le arti si rinnovano ma non progrediscono, non annientano il proprio passato, vi costruiscono sopra, se ne alimentano e lo alimentano contemporaneamente, al punto che pur essendo così diversi e distanti, Velàzquez è vivo tanto quanto Picasso e Cervantes continua a essere attuale tanto quanto Borges o Faulkner. (…) Per questo, sinora le lettere e le arti hanno costituito il denominatore comune della cultura, lo spazio in cui è stata possibile la comunicazione tra gli esseri umani (…)”.

Insomma, la scienza assicura il progresso materiale, ma le lettere e le arti sono necessarie alla comunicazione tra gli uomini. Lo scrittore pensa alla scienza come sinonimo di tecnica e parla dunque di un progresso tecnico (es.: un cellulare di nuova generazione sostituisce ed elimina un cellulare di vecchia generazione), che non ha bisogno del passato, se non nella misura in cui deve conoscerlo per superarlo nelle sue nuove forme applicative; ma la comunicazione tra gli uomini ha proprio bisogno del passato? In altri termini, gli uomini per comunicare tra loro hanno proprio bisogno di conoscere Velàzquez e Picasso, Cervantes e Borges e Faulkner? La risposta può essere negativa: no, non ne hanno bisogno! Ma allora occorrerà rispondere a quest’altra domanda: Che tipo di uomo sarà quello che potrà fare a meno di conoscere Velàzquez e Picasso, Cervantes e Borges e Faulkner?  E poi, siamo proprio sicuri che le lettere e le arti servano a comunicare?

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