Il film racconta una storia vera. L’Oxford English Dictionary (OED in sigla) è un monumentale dizionario storico della lingua inglese antica e moderna promosso dalla Philological Society di Londra nel 1857 e pubblicato dalla casa editrice Oxford University Press. Cominciata nel 1884, la pubblicazione si concluse nel 1928 col dodicesimo volume (invece dei quattro inizialmente previsti), con 414.825 definizioni e 1.827.306 citazioni ed esempi per illustrare il significato delle parole: la storia della lingua inglese per più di mille anni. Una seconda edizione in venti volumi è stata pubblicata nel 1989. Oggi una terza edizione, consultabile in rete, rivede le voci esistenti, rimpiazza le vecchie versioni, aggiunge nuove parole. Sono personaggi reali quelli del film, il dinamico direttore James Murray e un singolarissimo collaboratore, il dottor William Chester Minor, rinchiuso in un manicomio criminale, che manda al primo migliaia di parole fondamentali per la compilazione del dizionario. Non tutti i dettagli del loro insolito rapporto rispettano integralmente la verità (è un film, non un’opera storica). Ma, pur enfatizzando le dinamiche psicologiche e biografiche dei personaggi (non solo i due principali, molti altri si intersecano nelle loro vite), il film riesce abbastanza efficacemente a restituirci la portata grandiosa di quell’impresa epica e la pazzesca caccia alle parole compiuta da questi due uomini.
La vicenda riguarda l’Inghilterra ma il nostro paese può vantare, proprio in campo lessicografico, risultati gloriosissimi e precedenti nel tempo. L’Accademia della Crusca, fondata nel 1583, già nel 1612 regalò all’Italia il Vocabolario che, con adattamenti e miglioramenti nel corso di cinque successive edizioni, fu per secoli il prototipo di moderno vocabolario anche per altre lingue. Quel modello fu adottato e imitato dai vocabolari che in tempi successivi nacquero in nazioni importanti come la Francia, la Spagna, la Germania. Con la sua attività lessicografica l’Accademia si assumeva lo scopo fondamentale di separare il fior di farina (la buona lingua) dalla crusca, dando quindi un significato preciso alla propria denominazione. Il frullone, lo strumento che si adoperava per separare il fior di farina dalla crusca, simboleggiava questa scelta, ricordata anche dal motto adottato, il verso del Petrarca «il più bel fior ne coglie». Tutti gli oggetti e la mobilia dell’Accademia ebbero nomi attinenti al grano, alla crusca, al pane, compresi gli stemmi personali degli accademici, le pale di legno in cui è dipinta un’immagine accompagnata dal nome accademico e dal motto scelto. Elementi esterni fortemente simbolici e significativi, pur se non sostanziali.
Quell’opera collettiva fu realizzata da un gruppo composito, non tutti erano specialisti forniti di specifiche competenze linguistiche. Ma «il lavoro fu condotto con una coerenza metodologica e un rigore che andavano al di là di tutti i precedenti» (sono parole di Claudio Marazzini che alla storia del vocabolari italiani ha dedicato un libro molto informato e puntualissimo). Stampato a Venezia nel 1612, quel dizionario si può ammirare oggi in una splendida edizione anastatica del 2008, corredata di una monografia affidata a diversi specialisti (Francesco Sabatini, Nicoletta Maraschio, Teresa Poggi Salani, altri che non riesco a citare per ragioni di spazio) e di un CD-Rom che ne consente la consultazione a tutto campo, per ricerche di vario tipo.
Già ai primi del Seicento l’Italia si era dotata di uno strumento che, fondandosi sull’uso scritto fiorentino del Trecento, serviva da guida per gli scriventi di tutt’Italia, in una fase storica in cui si discuteva molto di quale potesse essere la lingua in grado di unificare tradizioni linguistiche variegate e difformi, diffuse nel territorio nazionale. Il Trecento fiorentino significa in primo luogo Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma anche autori minori e minimi, nati in Toscana in quel secolo, giudicati degni di stare al fianco dei maggiori: i valori linguistici intrinseci alla loro nascita erano prevalenti rispetto a eventuali insufficienze qualitative. Quel vocabolario guardava all’indietro per regolare il presente: usava il setaccio (il frullone, appunto) per separare la purezza antica della farina linguistica dalla crusca. I vocabolari odierni poggiano su una diversa impostazione metodologica, non hanno aspirazioni puristiche, accolgono neologismi, forestierismi, dialettalismi, termini scientifici, via via che, uscendo da un ristretto ambito originario, entrano gradatamente nella lingua comune: si registra l’esistente, dominato da ampie oscillazioni d’uso.
Nel Seicento erano diverse le condizioni, bisognava creare un’opera adeguata alle necessità del tempo. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca fu per secoli uno strumento eccellente, fondamentale per gli scriventi italiani che in esso potevano trovare una bussola per orientarsi tra oscillazioni, incertezze e dubbi. Lavoro esemplare e mirabilmente riuscito, diventò un modello per l’Europa, copiato in altre nazioni: in Francia (Dictionnaire de la langue françoise, 1694), in Spagna (Diccionario de la lengua castellana, 1726-1739), in Inghilterra (Dictionary of the English Language di Samuel Johnson, 1755), in Germania (Deutsches Wörterbuch dei fratelli Grimm, 1854).
Questa rubrica non è tenera con le manchevolezze e con le insufficienze che affliggono la vita culturale in Italia. Se per una volta possiamo esser fieri di quello che il passato ci consegna, scriviamolo senza arrossire.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 20 ottobre 2019]