di Franco Martina
Mentre i Costituenti scrivevano la mappa di principi e valori che avrebbero dovuto orientare la nostra nuova vita democratica, indicando nell’articolo 3 come compito non dello Stato (termine che compare solo con l’articolo 7 in un ben preciso ambito) ma della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, nel paese reale migliaia di famiglie si rendevano disponibili a dividere quanto avevano, e non era certo molto, accogliendo in casa propria per mesi o per anni i bambini meno fortunati, strappandoli a un destino di miseria e di ignoranza in quell’Italia appena uscita da un conflitto devastante trasformatosi in guerra civile.
È questa pagina dimenticata, o rimossa, che ha ispirato il bel romanzo di Viola Ardone, Il treno dei bambini (Einaudi, 2019). Un libro sapiente, perché obbliga spesso il lettore a un’autonoma riflessione e a una personale presa di posizione che non permettono risposte comode. Anche per questo non è corretto tentare di ridurre il libro alla sua trama o di raccontarne qualche passaggio significativo. Più utile è invece focalizzare la lezione contenuta nella sua articolazione.
“Proprio il nome di Amerigo e quello della donna che lo accolse e ospitò a Modena, Derna, agganciano il libro di Ardone a un’altra storia, a persone e fatti reali. Una decina di anni fa l’antropologo Giovanni Rinaldi raccolse le testimonianze orali di quanti avevano vissuto la repressione della manifestazione popolare avvenuta a San Severo, nel foggiano, il 23 marzo 1950.”
Grazie, Franco Martina