Contro la decisione del Senato Accademico del Politecnico di Milano, un folto gruppo di professori dello stesso ateneo, su iniziativa di Maria Agostina Cabiddu, proponeva ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, che annullava quella delibera nella parte in cui imponeva l’uso esclusivo della lingua inglese. Quei professori contestavano anche con strumenti formali una decisione del loro stesso ateneo. Ognuno capisce il nodo della questione, anche se non è avvocato e non si occupa di giurisprudenza. Se i corsi universitari si svolgono esclusivamente in una lingua straniera viene ufficialmente sancita la presunta impossibilità dell’italiano di essere lingua della comunicazione scientifica, la presunta incapacità di stare al passo dei tempi e di produrre in modo creativo strutture atte a esprimere in maniera efficace i contenuti tecnici e specialistici. L’italiano diventa una lingua di secondo rango, ne risulta compromessa l’immagine internazionale del nostro paese.. Ne ha scritto, a più riprese, Maria Luisa Villa, docente di Immunologia all’università di Milano, a partire da un libro del 2013, L’inglese non basta. Non ho letto, finora, una risposta seria alle sue considerazioni così bene argomentate.
Come spesso accade in Italia, la questione si trascina a lungo nelle aule dei tribunali, tra ricorsi e controricorsi, appelli e controappelli, fino alla Corte Costituzionale. Una sentenza della Corte (42/2017) avvia a conclusione la vicenda giurisdizionale. L’internazionalizzazione è senza dubbio positiva. Allo scopo di rafforzare l’internazionalizzazione del sistema universitario sono possibili diverse misure, tra cui anche l’attivazione “nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti e forme di selezione svolti in lingua straniera”. La differenza fondamentale risiede in due parolette: corsi universitari esclusivamente in lingua inglese per il Politecnico di Milano (e per altre università che ne hanno imitato l’esempio), corsi universitari anche in lingua inglese per la Corte Costituzionale. Per capirci: corsi in lingua italiana, sempre, e anche (accanto) corsi in lingua inglese.
Lo ha detto la Corte, tutti dovrebbero adeguarsi. Ma l’Italia è la patria del diritto e, spesso, della speciosità e della furbizia. Non capendo o facendo finta di non capire, alcune università impartiscono tutti i corsi in lingua inglese, affiancando agli stessi solo qualche corso o corsetto (spesso di materie non obbligatorie) in italiano. Insomma, rovesciano lo spirito e la lettera della sentenza della Corte. Una furbata tutta italiana. La dichiarata voglia di internazionalizzazione in questo entra poco o per niente. In molti casi pesano di più altre considerazioni. Simili operazioni, sostenute da vere e proprie campagne pubblicitarie, rispondono più a strategie di mercato accademico che a oggettivi bisogni formativi. Con i corsi in lingua inglese si attraggono cospicui fondi ministeriali e si cercano ricadute di immagine e di visibilità, all’interno e all’esterno del mondo accademico.
Alcuni dicono che così si attirano gli studenti stranieri. Ma vorrei sapere quanti sono gli studenti stranieri che si iscrivono a questi corsi. E quanti sono, al contrario, gli studenti italiani in grado di frequentare con profitto gli stessi corsi (i nostri studenti in genere hanno uno scarso livello di preparazioni linguistica in inglese, specie se appartengono alle fasce sociali economicamente svantaggiate). L’inglese si impara in altro modo, studiandolo assiduamente a scuola e all’università, vedendo film in lingua originale, ecc. Non frequentando corsi di ingegneria o di medicina, tenuti in un inglese che, per essere facilmente capito, deve essere giocoforza elementare, basico. Anche dove si tengono corsi in lingua inglese (si può fare, naturalmente) ci devono essere «sempre» i medesimi corsi in italiano, affinché i contenuti dell’insegnamento siano accessibili a tutti e diventino patrimonio della collettività nazionale.
La lingua è uno strumento potente. Durante la seconda guerra mondiale, Winston Churchill assisteva al lento sgretolarsi dell’impero coloniale inglese. Ma non ne era angosciato perché, in sintonia con il presidente USA dell’epoca, aveva in mente «un piano … attentamente elaborato per una lingua internazionale, capace di una vasta gamma di attività pratiche e scambio di idee. È composto da un totale di circa 650 nomi e 200 verbi o altre parti del discorso, un inglese basico…. Questi piani offrono guadagni ben maggiori che portar via le terre o le provincie agli altri popoli, o schiacciarli con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono gli imperi della mente». Le eloquenti parole di Churchill si leggono in un libro di Maria Agostina Cabiddu, L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, p. 36. Se ne traggano le conseguenze.
[“Nuovo Quotidino di Puglia” di domenica 13 ottobre 2019]