di Guglielmo Forges Davanzati
Come è sempre accaduto nella Storia italiana, nelle fasi recessive il Mezzogiorno ha sperimentato una recessione più intensa rispetto a quella del Nord (con l’eccezione del biennio 2012-2013, nei tempi più recenti). In un’economia – quella italiana del 2019 – con un tasso di crescita prossimo allo 0%, le regioni più povere del Paese fanno registrare tassi di crescita di segno negativo, che vanno a sommarsi a una traiettoria di perdita di Pil che dura almeno dallo scoppio della prima crisi (2007-2008). SVIMEZ calcola, a riguardo, che dal 2008 al 2014 il prodotto interno lordo in termini reali si è contratto dell’8% nelle regioni del Centro-Nord e del 14% nelle regioni del Sud, con picchi di perdita di ricchezza nell’ordine del 16% in alcune aree meridionali (è un ordine di grandezza simile a quanto sperimentato nel corso della crisi greca).
Ovviamente si tratta di dati medi e va puntualizzato il fatto che il Mezzogiorno non è un’area omogenea, presentando, al suo interno, zone nelle quali sono localizzate imprese innovative e con elevata produttività del lavoro (si pensi all’area intorno a Bari o nel napoletano, o anche – seppur con molti problemi – alla possibile ripresa del polo di Casarano, nel Salento). In ogni caso, il Sud nel suo complesso ha visto contrarsi i consumi privati nell’ordine del 6% nell’ultimo decennio, ha subìto una contrazione del Pil pro-capite a prezzi correnti di circa 1.000 euro, ha sperimentato una riduzione del tasso di occupazione del 2% (320.000 unità di lavoro in meno), un’esplosione della disoccupazione giovanile (48% è il valore medio, con picchi vicini al 60% in alcune aree) e delle emigrazioni.