di Antonio Errico
Quando gli umanisti dicono che questa civiltà ha bisogno di un nuovo umanesimo, in fondo si può anche non tenerne conto. Fa parte del loro percorso di formazione, è una conseguenza della conformazione del loro pensiero.
Quando dicono che si può scampare al disastro soltanto riscoprendo il senso profondo dell’essere nel tempo e nel mondo, si pensa che faccia parte del loro mestiere, che non potrebbero dire diversamente.
Se però il bisogno di un altro, nuovo, diverso umanesimo, viene espresso da uno scienziato, da un uomo costantemente teso alla ricerca, alla scoperta, allora la riflessione diventa necessaria, urgente.
Qualche giorno fa, in un’intervista a “la Repubblica”, Roberto Cingolani ha detto che il futuro sarà un tempo di grande progresso ma anche di grandi insidie.
Quando gli viene chiesto a quali insidie si riferisce, a quali pericoli, Cingolani risponde che “tutte le tecnologie portano anche controindicazioni. Dobbiamo recuperare l’umanesimo nella tecnologia, umanesimo significa che la tecnologia deve diminuire le differenze, non acuirle. Non possiamo pensare che per progredire i Paesi più tecnologicamente avanzati “scarichino” sempre più CO2 sugli altri. Dobbiamo sviluppare contromisure, attuare un cambiamento culturale, ad esempio per quanto riguarda il cibo. Il cambiamento culturale deve essere considerato come una “tecnologia”: lo scienziato del futuro dovrà fare sempre più analisi dei rischi e capire, davanti a rischi alti, che anche le tecnologie più fantastiche dovranno essere frenate, riviste, per il bene di tutti”.