di Rosario Coluccia
Nomofobia è una parola difficile, conosciuta da pochi italiani, usata da pochissimi, ancora non registrata in tutti i vocabolari. Il significato del segmento finale della parola è trasparente: fobia (dal greco phobia, connesso con phobos ‘timore’) significa ‘paura di carattere patologico’, che ricorre in parole come agorafobia ‘paura morbosa di essere in uno spazio aperto’, claustrofobia ‘paura morbosa di trovarsi confinato in uno spazio chiuso’, xenofobia ‘avversione indiscriminata nei confronti degli stranieri e di tutto ciò che proviene dall’estero’, e poche altre. Il neologismo nomofobia entra nella nostra lingua dal 2008, per derivazione immediata dall’inglese nomophobia (stessa data), dove nomo è contrazione di no mo(bile phone); la parola indica, alla lettera, ‘il terrore di rimanere privi del telefonino’ (mobil phone in inglese).
L’«Osservatorio neologico della lingua italiana» (http://www.iliesi.cnr.it/ONLI/) spiega che nomofobia (usato a volte in accezione ironica) indica una particolare forma di nevrosi generata dall’intrusione pervasiva delle nuove tecnologie nella nostra vita. Uno studio commissionato dal settore telefonia delle poste britanniche afferma che soffre di nomofobia il 53% degli utenti di telefonia cellulare del Regno Unito (ne è colpito il 58% degli uomini e il 48% delle donne). Negli Stati Uniti ne è affetta una persona su tre e la sindrome si sta pericolosamente diffondendo in tutto il mondo avanzato. Anche da noi. Quando constatiamo che il nostro cellulare improvvisamente non funziona o che il collegamento con la rete non è attivo (perché siamo entrati in una zona senza copertura o abbiamo esaurito la batteria o semplicemente la rete è congestionata) siamo colti da sensazioni di smarrimento e di paura, a volte di irritazione. L’inquietudine, se non è controllata, può arrivare a causare stati d’ansia e di malessere profondi, financo aggressività.