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I sigilli del corpo. Ed ecco cosa scrive Henri-Charles Puech, Sul manicheismo e altri saggi, Einaudi Torino 1995 [1974], pp. 293-294, a proposito del sigillo utilizzato dai manichei nei tempi antichi per preservare il fedele dal peccato: “ ‘Il sigillo’ (signaculum, sphragis, muhr) è ritenuto tale da contrassegnare e coprire con la sua impronta tre fra le parti principali del corpo, tale da tappare, chiudere in questo modo, come per mezzo di un suggello, le aperture dei sensi attraverso le quali la tentazione o il male penetrano nell’uomo o manifestano i loro effetti. Chiude la ‘bocca’ per renderla incapace di proferire la menzogna e qualsiasi parola malvagia, lega e immobilizza le ‘mani’ per vietare loro qualsiasi gesto di rapacità o di violenza, suggella il ‘grembo’ al fine di conservarlo, grazie alla castità e alla continenza, nella sua verginità o purezza totale. Vietando in tal modo agli influssi malefici provenienti dall’esterno di penetrare nell’anima, o alle intenzioni o agli impulsi malvagi sorgenti dal cuore di venire all’esterno e di realizzarsi, il ‘sigillo’ è essenzialmente sbarramento e chiusura: un freno, quanto meno. È guardia e salvaguardia: le prescrizioni che ad esso si richiamano sono divieti e difesa: mentre vietano al fedele di fare o dire questo o quello, esse lo difendono, lo proteggono, l’aiutano a preservarsi dal male, dalla sozzura del peccato. Sotto questo rispetto, la ‘sigillatura’ della ‘bocca’, delle ‘mani’ e del ‘grembo’ è paragonabile, ed è stata paragonata, a quella che i manichei chiamano altrove il ‘rinserramento delle porte’. Queste ‘cinque porte’ sono quelle dei sensi e degli organi di senso: ‘occhi’, ‘orecchie’, ‘naso’, ‘bocca’, ‘mani’. Aprirle o lasciarle aperte, significa provocare e permettere l’irruzione al proprio interno dei ‘demoni esterni’, esporsi a peccare; chiuderle, cioè ‘rinserrare le proprie membra’, operare la ‘chiusura dei sensi’, equivale, al contrario, a sottrarsi alle sollecitazioni della carne e del mondo, a rifiutarsi al male, a custodire la propria anima nell’integrità, pura e buona com’è per essenza.”
Credo che abbia a che fare con tutto questo anche la sigillatura dell’orifizio anale, che avviene durante la preparazione dei cadaveri che dovranno essere esposti al pubblico. E’ una prescrizione igienica, d’accordo, ma anche da lì potrebbero fare irruzione nel corpo i ‘demoni esterni’!
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L’amore di sé. Commentando Aristotele e Spinoza, Remo Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003 [1991], pp. 347-348, scrive: “È necessario capovolgere una prospettiva diffusa (anche oggi): non è l’amore di sé a essere intrinsecamente cattivo, ma è la qualità di chi lo pratica a renderlo buono o cattivo. Colui che vive in amicizia con se stesso e controlla razionalmente le proprie passioni contribuisce a migliorare e a rendere più intensi i rapporti sociali propri in quanto esercita la philantia, mentre l’amor proprio del malvagio, scisso e lacerato in se stesso, risulta dannoso a sé e agli altri.”
Pertanto, per giudicare una persona, basterà considerare la qualità delle sue azioni, che cosa essa realmente fa in conseguenza del suo amore di sé, al di là di quello che dice e di come appare. Nell’agire di un uomo vi è la sua essenza, il fondamento del suo essere. Il dire e l’apparire non sono altro che momenti del tutto parziali dell’agire e come tali vanno considerati.
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Pensieri mattutini sul mio rapporto col genere umano, mediato dalla lettura di libri. Del resto, si può avere un rapporto con l’altro, che non sia mediato da qualcosa, un interesse, un’idea, un proposito comune? Il mio rapporto con l’altro è mediato dal libro, nel quale leggo il suo pensiero e chiarisco il mio. Leggere, infatti, significa confrontarsi col pensiero altrui. È prerogativa umana il poter dialogare con i vivi e con i morti. Il vantaggio è enorme.
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La differenza tra genium e genius, secondo Robert Musil, L’uomo senza qualità II, Einaudi, Torin 1996, p. 1410: “Tutta la famiglia [della parola “genio”] risale al genium o ingenium della tarda latinità, (…) il cui senso primo è l’abilità e la capacità. (…) c’è un altro genio e un altro geniale che ritroviamo anch’essi in tutte le lingue e deriva non da genium ma da genius, cioè il più che umano, o almeno, in omaggio allo spirito e all’animo umano, ciò che vi è di più alto nell’uomo. Non ho bisogno di dire che questi due significati furono sempre irrimediabilmente scambiati e confusi, da secolo, nella lingua come nella vita, e non soltanto in tedesco…”.
Propriamente parlando, dunque, il genio della lampada come il genio di Mozart deriva da genius, mentre il genio civile deriva da genium: sono due cose diverse.
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Morte. Alle 18:30 di un giorno di primavera è spirato Fuffi, il nostro gatto, vissuto con noi per dieci anni. Che il dio dei gatti lo abbia in gloria! Quando l’ho detto a mia sorella, che abita nel piano di sotto, mi ha detto: “Ma come, l’ho visto poco fa sul muro che avanzava verso l’albero di kaki!”. Era uno dei figli o nipoti o pronipoti, di cui Fuffi ha popolato il quartiere. Pertanto, si può propriamente dire che Fuffi sia morto?
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Cavalli. Fare una passeggiata in auto con un uomo centenario può riservare delle sorprese. A me è accaduto con papà Pasquale, mio suocero, che in auto, guardandosi intorno, mi ha detto: “Gianluca, non si vede neppure un cavallo in giro, solo auto!”. Mio forte senso di estraniazione, che mi ha riportato indietro nel tempo, quando non c’erano auto, ma solo cavalli; un tempo che io non ho vissuto, ma di cui ho avuto contezza quando papà Pasquale ha mostrato la sua meraviglia.
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Alla fine della lettura dell’Epistolario di F. Nietzsche si rimane di stucco al pensiero che una mente così geniale a un certo punto si sia persa nella follia. Ma forse non era possibile dire altro…
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Segregazione. Noi vogliamo sapere che cosa la TV sta trasmettendo, cioè quel che accade nel mondo, come un tempo mio nonno si recava in piazza per conoscere le ultime notizie cittadine. Accendere la TV ha sostituito l’azione dell’uscire di casa. La tecnologia favorisce la nostra estraneità rispetto agli altri viventi.
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Bravate adolescenziali. Non ricordo più come accadde, ma ero in un gruppo di amici, a tarda sera. Avevamo poco meno di vent’anni. Scommettemmo una birra, se fossi stato capace di fermarmi per un’ora, da solo, vicino al cancello d’ingresso del cimitero, al buio. Vinsi la scommessa, dando spettacolo del mio coraggio. Per i miei amici, dovevo essere una specie di clown. Ma forse lo sono ancora, scrivendo queste cose.
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La violenza e il sacro. Scrive René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 [1972], p. 300: “Non si può postulare nell’uomo la presenza di un desiderio incompatibile con la vita in società senza collocare, di fronte a questo desiderio, anche qualcosa che lo tenga in scacco. Per sfuggire definitivamente alle illusioni dell’umanesimo, è necessaria una condizione sola, che però è anche la sola che l’uomo moderno si rifiuti di accettare: bisogna riconoscere la radicale dipendenza dell’umanità nei confronti del religioso.”
L’idea di René Girard è che i rituali dei primitivi nascano da una sana reazione alla violenza indifferenziata di tutti contro tutti, imperante tra gli uomini in un tempo mitico. La religione, con i suoi riti, ha incanalato la violenza indiscriminata verso l’uccisione rituale del capro espiatorio, che, prendendo su di sé tutto il male del mondo, purifica gli uomini, li riappacifica e li riunisce in un consorzio civile e ordinato, ripristinando lo stato di pace e sicurezza precedente. Infatti, il rituale non è una tantum, esso è ciclico come ciclica è la vita della natura e degli uomini; sicché la violenza rituale (l’uccisione del capro espiatorio) deve essere ripetuta periodicamente, per evitare un male peggiore, ovvero il ripresentarsi della violenza indifferenziata.
Penso alle terribili stragi di cui abbiamo notizia quasi ogni giorno, nelle quali possiamo leggere la violenza indifferenziata delle origini, che si riproduce senza soluzione di continuità nel mondo attuale. Una violenza di tutti contro tutti che richiede il capro espiatorio, necessario a ripristinare la sicurezza collettiva. Chi è oggi il capro espiatorio? Quale religione se ne fa carico? E’ sufficiente il rituale simbolico della pasqua, col Cristo che muore per salvare gli uomini? In realtà, nella violenza diffusa della nostra società secolare gli unici capri espiatori sono proprio le vittime innocenti della violenza indiscriminata: il migrante (meglio se bambino) naufrago morto annegato, la donna indifesa vittima di femminicidio, il civile ignaro colpito per sbaglio da una bomba intelligente, ecc.
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Il mito dell’integralità. Raffaele Manica, Sono anni di azione, militare e amorosa, in “Il Manifesto – Alias” di Domenica 23 aprile 2017, p. 5, recensendo Stendhal, Il laboratorio di sé, a cura di Vito Sorbello, Aragno, Torino 2016, scrive: “… l’integralità è forse un mito dei tempi nostri, che preferiscono non leggere anziché leggere in antologia – che già sarebbe qualcosa (quante volte, di fronte ai vecchi volumi Ricciardi in occasione a prezzi stracciati, si è visto l’acquirente esitare “perché è un’antologia” e si vorrebbe adesso chiedergli se ha letto tutto Algarotti: le antologie, si passi l’ovvietà, dipende da che antologie sono).”
E’ azzardata l’ipotesi che il mito dell’integralità copra in realtà, e riveli, la bramosia, propria degli intellettuali, di possedere il mondo?
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Diario. Quando si scrive un diario, bisogna stare attenti a non anticipare quello che si farà, perché il rischio è di mettersi nella condizione di chi non può onorare un debito o mantenere una promessa. Il diario non può mai riguardare le cose future, se non per azzardo o come mera intenzione. L’uno e l’altra riguardano il presente di chi scrive. Pertanto, ha ragione Laurence Sterne quando dice che la scrittura diaristica non potrà mai raggiungere la vita; il che vuol dire che lo scrittore non deve inseguire la vita, ma trasformarsi in narratore, come dice Celati, cioè in qualcuno che riferisce storie. Come si vede, altra cosa è la scrittura diaristica, sempre indietro rispetto alla vita, mentre il narrare è sempre davanti. Perché la scrittura sia viva, occorre dunque che si muti in racconto.
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Come lavoro. Nel silenzio della casa, quando non c’è nessuno o tutti dormono: è il momento migliore per scrivere. Il procedimento è sempre lo stesso: la prima mano, di getto, è a penna, la seconda, più ragionata e riflessiva, al computer.
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Elogio dell’otium in Marc Fumaroli, Parigi-New York e ritorno, Adelphi. Milano 2011, pp. 94-95: “Le forme di società passano, la storia insegna che la loro costruzione ingiusta, né più né meno ingiusta della nostra, le rendeva provvisorie e le condannava alla rovina. Ma saranno giudicate male, sul lungo termine, in base allo spazio e alle regole che esse hanno dato, sotto forme diverse, all’otium, condizione di esercizio fecondo sia della vocazione umana alla contemplazione sia di quella che porta all’agire, al fare, all’operare. La paura e l’orrore del vero risposo disumanizzano. Solo dal riposo contemplativo, dalla riflessione che esso autorizza, scaturiscono le fonti divine del poco di scienza, di saggezza, di giustizia, di amore, di felicità e di bellezza che i mortali possono trasmettersi per rendersi personalmente degni di stima.” Da mettersi in relazione con quanto detto a proposito dell’ideologia di Fumaroli.