Oltre il ‘breveperiodismo’, promuovere innovazioni attraverso l’intervento pubblico (la crisi vista da Sud)

In questi giorni è stata approvata la Nota di aggiornamento al DEF dal Consiglio dei Ministri. Il grande problema è trovare le risorse per scongiurare la clausole di salvaguardia dell’aumento dell’IVA. La futura manovra economica sarà espansiva? E che impatto avrà sulle disuguaglianze ormai sempre più accentuate?

A mio avviso, molto dipende da come verrà rimodulato il carico fiscale. Ben venga il fatto che questo Governo non intende riproporre la proposta leghista della flat tax, imposta per sua natura regressiva e che, se applicata, avrebbe danneggiato le famiglie a più basso reddito (essendo concepita come imposta unica, avrebbe fatto pagare ai più poveri – in termini percentuali – quanto pagano i più ricchi) e avrebbe ampliato i divari regionali. 

Date le condizioni nelle quali versa l’economia italiana, con un tasso di crescita previsto per fine 2019 allo 0,3% (in assenza di aumenti dell’IVA), occorrerebbe modulare la ripartizione dell’onere fiscale in modo tale da riuscire, almeno in parte, a conseguire due obiettivi, peraltro correlati: ridurre le crescenti diseguaglianze distributive e provare a frenare il drammatico declino del tasso di crescita della produttività del lavoro. 

Occorrerebbe rivedere l’attuale struttura dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), rendendola sempre più progressiva, ovvero facendo pagare alle famiglie con più alto reddito aliquote percentuali più alte rispetto a quelle applicate per le famiglie con più basso reddito. Vi è ampia evidenza empirica in merito al fatto che la riduzione delle diseguaglianze distributive (prima e dopo la tassazione) e delle diseguaglianze derivanti dalla trasmissione dei patrimoni è un fattore di crescita. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che la riduzione delle diseguaglianze stimola i consumi, avendo i percettori di redditi bassi una propensione al consumo più alta dei percettori di redditi più elevati. Inoltre, l’aumento del reddito netto delle famiglie più povere consente loro maggiori consumi non finanziati da indebitamento: fattore che contribuisce a stimolare la domanda interna senza la ‘droga’ del credito al consumo. A ciò si può aggiungere l’effetto per il quale l’aumento dei consumi, accrescendo i mercati di sbocco, stimola la crescita dimensionale delle imprese. E imprese di più grandi dimensioni, come diffusamente registrato sul piano empirico (per esempio, in recenti Rapporti OCSE), sono, nella gran parte dei casi, le imprese che fanno registrare il più alto tasso di crescita della produttività del lavoro. 

Aggiungerei che il problema delle ‘coperture’ (dove trovare le risorse) è ovviamente un problema squisitamente politico e non tecnico: è cioè rilevante la decisione relativa a come ripartire poste del bilancio pubblico per le finalità che un esecutivo si propone di conseguire. E aggiungerei che, in tal senso, avere un tecnico, un economista al MEF [Ministero dell’Economia e delle Finanze, NdR] o uno storico è del tutto irrilevante, ed è probabilmente meglio avere un non economista. Quantomeno non ha un modello da applicare (e ben sappiamo quanti danni hanno fatto i modelli economici quando hanno trovato concreta realizzazione: si pensi al caso della cosiddetta austerità espansiva).  

La giornata di sciopero globale Fridays for Future dello scorso venerdì ha avuto molto successo a livello planetario. Però c’è ancora timidezza nelle risposte dei paesi che producono e inquinano di più, come USA e Cina. Sarà difficile in un nel momento di crisi economica attuale, con un ritorno al protezionismo statunitense e un calo dell’export cinese e tedesco, provare a riconvertire le produzioni ad alto consumo inquinante, soprattutto se la capacità produttiva è sottoutilizzata. Si discute di un green new deal tedesco e Giuseppe Conte prova a “copiare”, in Italia, promettendo investimenti nel settore energetico a basso impatto. Lei pensa che per rilanciare produzione e occupazione possa essere fruttuoso percorrere la strada della riconversione ecologica? E come queste scelte possono essere comprese dalle popolazioni dei paesi in via di sviluppo e dalle stesse fasce povere dei paesi più ricchi, che non godono dei vantaggi derivanti dal consumismo?

Mi limito al caso italiano, consapevole che un ‘green new deal’ deve ovviamente situarsi su una scala non limitata a un singolo Paese e che debba superare la logica ‘breveperiodista’ che ha guidato le scelte politiche degli ultimi decenni. Ritengo che vi sia (e vi debba essere) una saldatura fra crisi ambientale e politiche industriali e per la ricerca scientifica. 

Non vi è dubbio che l’economia italiana avrebbe bisogno – nei limiti dello spazio fiscale disponibile – di investimenti pubblici in ricerca, che attivino un percorso potenzialmente virtuoso di crescita trainata dalla domanda interna e da innovazioni, queste ultime anche finalizzate a contenere i danni ambientali. Si tratterebbe di una misura fattibile ed efficace per l’obiettivo di rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione giovanile, per le seguenti ragioni:

  • La spesa per ricerca e sviluppo in Italia, su fonte OCSE, è ferma da oltre un decennio all’1% in rapporto al Pil, a fronte di una media nei Paesi industrializzati superiore al 2% (e del 4% circa della Germania). In più, come certificato dall’OCSE, essa è inferiore alla spesa che lo Stato italiano sostiene per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico. La spesa privata per ricerca è prossima allo zero. Le poche innovazioni che le poche imprese private fanno sono per lo più innovazioni incrementali e la gran parte delle innovazioni di cui fanno uso derivano da importazioni di beni capitale ad alta intensità tecnologica.
  • Si stima che i giovani laureati disoccupati o sottoccupati residenti in Italia sono siano circa 1 un milione. Si tratta di individui le cui conoscenze sono non utilizzate o sottoutilizzate (si pensi ai casi sempre più frequenti di laureati camerieri) e potenzialmente occupabili in centri di ricerca pubblici. L’assunzione di giovani qualificati nel settore pubblico avrebbe effetti positivi nel breve periodo di espansione della domanda interna e di lungo periodo sul tasso di crescita della produttività del lavoro. In più, l’aumento degli occupati con elevata qualifica avrebbe ragionevolmente effetti sull’aumento dell’occupazione di lavoratori non qualificati, come risultato dell’aumento della domanda interna conseguente a un aumento dei consumi.
  • Il settore pubblico italiano è notevolmente sottodimensionato e, per numero di dipendenti, più piccolo della media europea, a causa di lunghi periodi di blocco delle assunzioni; blocco motivato con l’idea (non saggia, almeno in una prospettiva di lungo periodo) di generare risparmi pubblici tagliando stanziamenti per il settore della ricerca scientifica. Non è una buona idea: è agevole intuire che le inefficienze della pubblica amministrazione italiana derivano anche dalla carenza di personale, peraltro con età media sempre più alta e più alta della media europea. 

Si tratta di uno scenario che si pone in radicale controtendenza rispetto a quanto fatto dai Governi italiani degli ultimi decenni, incluso l’attuale, non solo perché gli investimenti pubblici (particolarmente nel settore della ricerca) sono stati irrisori e in notevole riduzione nell’ultimo decennio, ma anche perché – anche quando un aumento degli investimenti è stato previsto nelle Leggi di bilancio – a consuntivo il loro importo si è rivelato di gran lunga inferiore rispetto a quanto stimato. Una stima del costo del provvedimento viene presentata a seguire. Per semplicità di esposizione e di calcolo, si confronterà il costo a carico delle finanze pubbliche del reddito di cittadinanza con il costo a carico delle finanze pubbliche di un intervento finalizzato all’assunzione di giovani laureati nel pubblico impiego e nei centri di ricerca. 

La Legge di Bilancio 2019 stanzia un finanziamento pari a 7.100 milioni di euro per l’anno 2019, a 8.055 milioni di euro per l’anno 2020 e a 8.317 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021. All’interno del fondo, un importo fino a 1 miliardo di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020 è destinato ai centri per l’impiego al fine del loro potenziamento e un importo fino a 10 milioni di euro per l’anno 2019 è destinato al finanziamento del contributo per il funzionamento dell’ANPAL. 

Il bilancio pluriennale 2019-2021 potrebbe finanziare un investimento in ricerca di dimensioni significative, attraverso un programma di assunzioni nel settore pubblico di ricercatori e giovani altamente qualificati. 

Lo stipendio di un ricercatore italiano a tempo pieno al primo scatto di stipendio triennale (ovvero dopo 3 anni dall’assunzione) di circa 2000 euro lordi mensili. Una stima di prima approssimazione porterebbe a quantificare in oltre 300 mila unità i neo-assunti nel settore pubblico, con una spesa complessiva per il triennio 2019-2021 di circa 20,5 miliardi e un risparmio – rispetto allo stanziamento previsto per il reddito di cittadinanza – di circa 1 miliardo all’anno per i primi tre anni.

L’importo complessivo di un programma decennale di ammodernamento della pubblica amministrazione e di investimenti in ricerca ammonterebbe dunque a circa 66 miliardi di euro. Ciò comporterebbe l’assunzione di 300.000 unità nel settore pubblico tra ricercatori e giovani altamente qualificati e con un risparmio dicirca 4 miliardi e mezzo nei primi 6 anni rispetto alla spesa prevista per il reddito di cittadinanza. 

Da diversi anni a sinistra dibattiamo sul ruolo delle politiche di austerità e della configurazione istituzionale europea nel modellare la crisi economica e sociale che viviamo. La BCE a guida Draghi ha attuato politiche monetarie espansive, ma, per ammissione della stessa, queste non bastano a rilanciare l’economia europea. Perfino il FMI ha modificato le proprie posizioni rivedendo i calcoli dei moltiplicatori fiscali. Nascono e continuano a nascere, anche a sinistra, piccole realtà politiche che mettono al centro della propria analisi la rottura con le istituzioni europee. Ovviamente una rottura dell’UE con gli attuali rapporti di forza fra le classi sociali darebbe luogo a un quadro economico e politico ben più fosco dell’attuale. Però secondo questi movimenti politici sarebbe auspicabile una “uscita da sinistra”, per usare un’espressione di qualche anno fa dell’economista Emiliano Brancaccio; ovvero una ‘Lexit’, termine coniato per la situazione inglese. In definitiva tale ‘exit’ sarebbe condizione necessaria, anche se non sufficiente, a cambiare musica, stando a diversi commentatori non solo italiani. Lei pensa che un discorso politico incentrato su questo tema possa essere utile a ricompattare le frammentazioni e rinvigorire l’intero movimento dei lavoratori?

Proviamo a chiarire i termini della questione. La vostra domanda si riferisce al cosiddetto sovranismo, che io definirei – in Economia – come una linea di politica economica basata sulla convinzione che è solo il recupero della sovranità monetaria a poter generare crescita. La sovranità monetaria è intesa nella duplice accezione della possibilità accordata alla Banca centrale di stampare moneta e della possibilità della valuta nazionale di essere svalutata rispetto a valute concorrenti. Si propone, a riguardo, un modello nel quale la possibilità di stampare moneta da parte della Banca centrale fa sì che l’espansione del debito pubblico non costituisca un problema, dal momento che i titoli di Stato verrebbero acquistati dalla Banca centrale. Si aggiunge che la svalutazione della moneta – che presuppone, nel caso italiano, l’abbandono dell’euro – accresce le esportazioni, dunque la domanda aggregata e l’occupazione. Si immagina che questi interventi non abbiano costi e, di norma, questa proposta prescinde dall’esistenza di classi sociali e dunque dei possibili effetti redistributivi di queste misure.  

Il sovranismo è collocabile prevalentemente a Destra, sebbene esistano segmenti importanti del residuo della Sinistra italiana che considerino questa opzione desiderabile. Il principale punto di distinzione sembra risiedere, oltre evidentemente alla radicale differenza ideologica, nel fatto che il sovranismo di destra intende rappresentare gli interessi della Nazione, a fronte del fatto che quello di sinistra intende rappresentare gli interessi di classe (della classe operaia), ritenendo che li si possa difendere lottando contro il capitale finanziario multinazionale che sarebbe alla radice, secondo questa lettura, dell’impoverimento delle classi subalterne e della perdita del loro potere politico.

Nutro qualche dubbio in merito al fatto che sia possibile (e finanche auspicabile) un’uscita “da sinistra”. Come proposto dai suoi sostenitori, questa opzione dovrebbe associarsi alla messa in discussione del libero scambio all’interno dell’eurozona. Qui si pongono due rilievi critici, riferiti all’Italia. In primo luogo, la struttura produttiva italiana è composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco orientate alle esportazioni (soprattutto nel Mezzogiorno), fortemente bancocentriche, collocate in settori produttivi maturi: agroalimentare, turismo, beni di lusso. In sostanza, pare di capire che questa tesi non tenga conto del fatto che i problemi dell’economia italiana prima ancora di essere problemi di finanza pubblica sono problemi che attengono alla desertificazione industriale della nostra economia, e che derivano, in ultima analisi, da scelte politiche che risalgono a una stagione precedente l’adozione della moneta unica: in primis, la rinuncia all’attuazione di politiche industriali. A ciò si può aggiungere che l’eventuale attuazione di misure protezionistiche indebolirebbe ulteriormente il già fragile settore produttivo italiano, che già stenta a integrarsi nelle “catene del valore” dell’Eurozona. In secondo luogo, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipenda, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Va richiamata, a riguardo, la ben nota tesi di George Soros, per la quale l’Europa starebbe meglio se la Germania abbandonasse l’euro, e la Germania stessa ne trarrebbe notevoli benefici.

Ritengo, infine, che il movimento dei lavoratori – ammesso che lo si possa pensare appunto come movimento organizzato, nelle condizioni storiche date – possa recuperare potere economico e politico a condizione di mettere radicalmente in discussione le misure di precarizzazione del lavoro attuate nell’ultimo ventennio in Italia e nella gran parte dei Paesi OCSE: misure che hanno avuto impatti devastanti sulla coesione fra lavoratori, riducendo drasticamente la union density. È cioè soprattutto sulle istituzioni e sulle regole di funzionamento del mercato del lavoro che oggi si gioca la lotta di classe fra Lavoro e Capitale, non nella denominazione della moneta che abbiamo in tasca. Ed è peraltro una lotta che richiederebbe un coordinamento sovranazionale oggi sostanzialmente assente. 

Viceversa, quanti propugnano una mobilitazione sul terreno europeo per un cambio di paradigma (spesa sociale, redistribuzione, piena occupazione) pensano alla modifica delle “regole del gioco” UE, dall’istituzione di un “Doppio Mandato” per la Banca Centrale Europea fino alla ‘Regola d’Oro Aumentata’ proposta da Dervish e Saraceno: fondamentalmente si tratterebbe di obbligare le istituzioni europee a scelte dichiaratamente politiche, squarciando una volta e per tutte il velo “tecnocratico”. Ovviamente anche questa “ri-politicizzazione dell’economia” può camminare solo sulle gambe di movimenti sociali che al momento non ci sono: si tratta però di una direzione di marcia promettente?

Su questo Kalecki ha molto da dirci. Per quanto apprezzabile, la proposta di Dervish e Saraceno, a me pare, non tiene conto del fatto che (i) la tecnocrazia non è a-politica (è semmai il nuovo modo di governare in un’agenda neo-liberale, che comunque continua a preservare spazi di democrazia); (ii) le regole possono essere cambiate, a vantaggio dei lavoratori, se questi ultimi guadagnano potere economico – ottenendone il massimo in condizioni di permanente pieno impiego – dal momento che il potere di negoziazione nella sfera politica è fondamentalmente un derivato del potere contrattuale nella sfera economica, a partire dalle relazioni industriali e dalla contrattazione dei salari reali.

[in www.palermo-grad.com del 5 ottobre 2019]

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