Poi, alla fine del III sec. a.C. le nostre terre furono invase dalle soldataglie africane di Annibale e orde di guerrieri provenienti da Numidia e da Mauretania furono mandate a depredare le campagne ed a rubare i cavalli che erano il vostro orgoglio. Anche il tempio venne devastato e abbattuta la statua di culto che mi raffigurava, con l’elmo frigio, ad indicarne le origini da Troia ed il passaggio di Enea. Furono bruciati anche i miei ulivi. Ma i Romani avevano ricostruito questo paesaggio nelle campagne e l’olio aveva ripreso a scorrere ed a fecondare la terra, anche durante il Medioevo e nei secoli successivi, e quanto di bello era nei vostri edifici barocchi fu creato grazie alla produzione dell’oro liquido che sgorgava abbondante nei frantoi e nei trappeti.
Quel paesaggio di ulivi, formato in quattromila anni, era ormai legato alla Identità del Salento e, sino alle vette dell’Olimpo, giungevano notizie del vostro impegno alla tutela di questa ricchezza, non solo economica: una Legge regionale per proteggere gli alberi storici e poi il Piano Paesaggistico Regionale, che la Puglia aveva approvato, prima tra le Regioni d’Italia, a tutelare i caratteri incomparabili di territori, prodotti dal lavorio millenario dell’uomo.
Pensai che fosse giunto il momento di rivelare finalmente il luogo in cui per secoli ero stata oggetto di culto, un luogo che molte delle vostre città sulla costa, da Brindisi a Leuca, avevano rivendicato, orgogliose di associare il loro nome ai versi immortali di Virgilio che descriveva il primo arrivo di Enea sulle agognate coste dell’Italia. E così gli archeologi della vostra Università avevano portato alla luce il luogo del Santuario a Castro e la fossa dove era stata nascosta la mia statua in pietra leccese, calcare dorato come l’olio, che artigiani provenienti da Taranto avevano scolpito nel IV secolo a.C.: una statua che misurava più di tre metri, la più alta di tutta la Magna Grecia.
Poi proprio nel mio Promontorio Iapigio è iniziato il disastro della peste degli ulivi, e oggi il Salento è come se avesse subito un terremoto, un terremoto biologico, che avanza verso nord senza trovare ostacoli. Come gran parte di voi Sallentini, ero convinta che un evento così grave sarebbe stato bloccato da un impegno congiunto delle forze politiche, dei ricercatori, delle tante associazioni votate alla difesa dell’ambiente. Anche il Gubernator Apuliae, nella sua campagna elettorale di qualche anno fa, aveva assicurato il suo deciso intervento presso la Comunità europea, per ottenere le risorse necessarie a bloccare l’avanzata della malattia attraverso un cordone fitosanitario ampio 15 chilometri dall’Adriatico allo Ionio; con l’eradicazione di qualche migliaio di piante, avremmo evitato questa lenta agonia di milioni di ulivi. A Bruxelles un salentino, Paolo De Castro, vice-presidente della Commissione Agricoltura al Parlamento Europeo, aveva assicurato il suo impegno a sostenere la nostra giusta causa, se solo la Regione Puglia avesse inviato un progetto in tal senso, che aspettano ancora. Intanto alcune sette di fanatici fondamentalisti, che si erano autoproclamati unici difensori dell’ambiente, avevano iniziato a manifestare nelle vostre campagne, sostenendo che bastava abbracciare gli ulivi o lavarli col sapone per eliminare la malattia, rifiutando qualsiasi indicazione degli scienziati del Consiglio Nazionale delle Ricerche. E questo per me, che sono dea della Sapienza, è un oltraggio ancora più insopportabile: sempre infatti mi accompagna la civetta, l’uccello che vede nel buio dell’ignoranza e che rappresenta il simbolo della Conoscenza.
Di fronte a questo immane disastro tutti parlano del danno al paesaggio, ma tutti dimenticano di aggiungere un aggettivo: STORICO. Il paesaggio degli ulivi del mio Salento è un paesaggio prodotto dai quattromila anni della vostra Storia; i politici locali e nazionali, Ministri, sindaci, rappresentanti degli agricoltori dicono che ormai bisogna solo pensare al futuro: come se il Salento fosse una terra senza Storia propongono soluzioni globali. Arriveranno soldi, ma per fare cosa? Piantare dappertutto il mitico leccino, o trasformarlo nella terra del kiwi, o, peggio ancora, coprirlo di pannelli fotovoltaici, con il rischio, che già i nostri geologi hanno paventato, che l’erosione del terreno diventi irreversibile e davvero inizi la desertificazione dell’ambiente? Ma che ne sanno di geologia i geologi, nel tempo in cui uno vale uno?
Come nelle zone del Friuli colpite dal terremoto bisogna iniziare la ricostruzione, ma rispettando il paesaggio storico e lavorando ad un grande progetto di ricostruzione e di restauro. A Venzone le pietre sono state studiate una per una, in un esemplare lavoro collettivo ed oggi le città del Friuli sono esempio di una rinascita rispettosa della propria Storia e della propria Identità, ed anche di una economia fiorente che sa cogliere le opportunità anche dalle disgrazie. Per questo sbaglia il Gubernator Apuliae a sostenere che bisogna procedere senza indugio nella liberalizzazione del reimpianto, senza lacci e laccioli, senza che ci sia qualcun altro a decidere “dove mettere gli alberelli, uno qua ed uno là”, sia esso ricercatore o funzionario di uno Stato che pure, nell’articolo 9 della Costituzione, “Tutela il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Per valutare la compatibilità paesaggistica dei nuovi interventi è necessario innanzitutto un grande sforzo culturale in cui le competenze scientifiche multidisciplinari delle Università, degli Istituti di Ricerca, possano finalmente lavorare insieme.
Il ritorno al mio santuario di Castro è segnato da infausti eventi; per questo non rivelerò il luogo in cui è ancora sepolta la testa del mio simulacro sino a che non verranno segnali che, davvero, avete compreso la gravità della malattia che vi ha colpito. Sino ad allora il busto rimarrà privo della sua testa, a testimonianza della mia collera e del rifiuto a rivolgere lo sguardo verso un tale indicibile sacrilegio!
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 3 ottobre 2019]