Al di là dell’incertezza di ogni previsione e del destino finanziario della filologia, devo confessare che quel magnifico traguardo mi è sempre sembrato un po’ povero. Se io e qualche amico che avrebbe poi continuato a scrivere ne siamo venuti fuori – cercando di tenere lo sguardo sulle ragioni più profonde per cui si legge e si scrive – lo dobbiamo in primo luogo a pochi sapienti consigli di lettura e a qualche rivista francese e inglese, che ci aveva mostrato altre possibilità di affrontare la letteratura e più precisamente il modo in cui prendere la parola. Certo, ci abbiamo messo un po’ a capirlo, anche perché, oltre agli studi teorici, ci si presentava davanti un altro ostacolo, quello della legittimazione della scrittura. O per meglio dire, quello della difficoltà che gli autori del primo Novecento avevano dovuto affrontare per riconoscere a se stessi questa possibilità, che nello studio si riverberava in termini teorici sulla nostra legittimità a intraprendere la stessa operazione. Se la centralità di questi autori era stata decisiva per la generazione dei nostri insegnanti, chiaramente dovevamo farci i conti anche noi.
Al di là di circostanze biografiche talvolta clamorose, osservando grandi modelli come Svevo, Gadda o Tozzi, stupisce l’eccezionale grado di difficoltà incontrato nel rendere ragione del proprio impegno letterario, come l’asprezza degli ostacoli incontrati da Broch o da Musil. Non c’è dubbio che tale difficoltà si sia manifestata in modo rilevante nel corso del primo Novecento, sia per ragioni storiche (il ruolo dello scrittore nella società), sia per ragioni letterarie (un fenomeno forse sopravvalutato, che Claudio Magris chiamava «perdita del grande stile» e che Lukács aveva già individuato in Teoria del romanzo). Dovremmo qui ricordare che, per quanto la difficoltà di motivare la propria attività letteraria nel primo Novecento si sia rivelata diffusa, non si è trattato di un fenomeno omogeneo. Non tutti hanno dovuto superare costrizioni familiari severe, o nevrosi quasi invincibili.
Se nel corso degli anni novanta del Novecento nelle aree periferiche dell’Italia settentrionale la letteratura poteva ancora essere guardata con sospetto – non che oggi le cose siano migliorate: si comprende eventualmente il successo editoriale, non la pratica quotidiana –, seguire le vicende biografiche più tormentate non poteva certo riuscire incoraggiante.
Per essere un po’ più precisi, la faccenda non riguardava solo la scrittura; la stessa lettura agli occhi dei familiari poteva rivelarsi un passatempo incomprensibile. Così, non avendo a disposizione lo studio di uno zio o l’ombra dei noccioli ai margini di un parco, il mio piacere della lettura non era interrotto dall’obbligo di andare a pranzo, o dai pareri della zia, infallibili in fatto di cucina o di interpretazione delle sonate di Beethoven – posso garantire che per me in quei frangenti il momento era proustiano solo in parte –, in quell’ «Ah, stai leggendo» era facile intuire ciò che ne sarebbe seguito, ossia l’espressione dell’interlocutore che avrebbe interrotto l’incanto per qualsiasi ragione, per la più piccola incombenza, fino al temutissimo: «Hai cinque minuti?» di mio padre che significava di fatto l’obbligo di dedicare il pomeriggio intero (centinaia di minuti) a un dovere più concreto, tangibilmente materiale.
Perché ci siamo ritrovati così spesso a parlare della prima metà del XX secolo? Perché per molto tempo con l’espressione «i grandi romanzi del Novecento» – un secolo che dal punto di vista letterario si è rivelato imprevedibilmente lungo –, abbiamo inteso soprattutto i grandi romanzi usciti negli anni Venti. L’Ulisse di Joyce è del 1922, La coscienza di Zeno di Svevo, del 1923; nel 1925 e nel 1926 escono postumi, rispettivamente, Il processo e Il castello di Kafka; Virginia Woolf pubblica nel 1925 Mrs. Dalloway e nel 1927 Gita al faro; la pubblicazione di Alla ricerca del tempo perduto di Proust si conclude, cinque anni dopo la morte dell’autore, nel 1927; nel 1929 Céline comincia a lavorare al Voyage, che uscirà nel 1932. Varrebbe la pena di ricordare che Gli indifferenti di Moravia esce nel 1929. In questo periodo Nabokov è a Berlino e pubblica i suoi primi romanzi.
Per quanto dal 1929 in poi in Europa le condizioni economiche siano cambiate in modo radicale – e per quanto dal 1922, e sicuramente dal 1925 in poi in Italia le cose stessero già volgendo progressivamente al peggio – in generale i valori letterari del «campo di produzione ristretta» sono rimasti a lungo (e con buona ragione) inalterati. Basti pensare alla statura assunta da Proust nel nostro paese quale emblema della grandezza letteraria. Superata l’urgenza della testimonianza, che ha caratterizzato i primi anni del secondo dopoguerra e la narrativa resistenziale, è con questi valori che ci si è dovuti confrontare. Non a caso, fra il 1957 e il 1963, quando l’opera di Gadda ha cominciato ad essere conosciuta al grande pubblico, la critica ha cercato di inserirla in un contesto internazionale.
Roberto Bolaño ha sostenuto giustamente che un tempo, quando gli autori provenivano per lo più dalle classi agiate, diventare scrittore comportava la perdita della rispettabilità e di molti diritti assicurati dal rango, mentre oggi, per un singolare paradosso – mutata in prevalenza l’estrazione sociale degli artisti – il traguardo che molti giovani scrittori cercano di inseguire fin dal loro primo libro è diventato proprio quello della rispettabilità.1 Un tempo, emergere a dispetto di un contesto sociale che scoraggiava quest’attività – o che almeno la scoraggiava in termini professionali – poteva decisamente dirsi questione di carattere, mentre in anni più recenti il mutamento di traguardo intervenuto con la perdita di rilevanza della rispettabilità estetica rispetto a quella economica ha condotto a un cambiamento fin troppo evidente. Se allora non emergeva quasi nessuno, oggi, passando all’altro eccesso, per qualche istante possono emergere tutti, prima di piombare di nuovo nell’irrilevanza.
Nei processi di giustificazione dell’attività letteraria più logoranti, ma anche più fecondi, come quelli di Gadda o di Broch, il riscatto della propria pratica mirava alla ridefinizione complessiva dell’intera disciplina artistica.
Eppure, come si diceva, questa necessità non si è rivelata un passaggio obbligato per tutti i grandi autori: talvolta è rimasta un problema inerente quasi esclusivamente l’opera, più che l’artista o l’esercizio dell’arte, perciò il lavoro di motivazione non ha comportato un’interrogazione incessante, una riflessione onerosa sulle condizioni a priori dell’esercizio artistico e sui suoi limiti costitutivi. Non a tutti è rimasto in bocca il sapore di funghi ammuffiti che le parole suscitavano nella Lettera di Lord Chandos (1902) di Hofmannsthal. Ci sono casi in cui l’ossessione artistica ha trovato modo di motivarsi e di esprimersi senza dover necessariamente passare per una giustificazione arrovellante come nei reperti gaddiani del Racconto italiano di ignoto del Novecento o nelle prove filosofiche della Meditazione milanese. Nabokov, ad esempio, non vi passò mai, neanche nei primi difficili anni di esilio a Berlino. E in questa misura prima di lui certo non vi passò James Joyce, per non dire di Céline – che di Gadda era quasi coetaneo – o di Hemingway. L’elenco di chi invece ha dovuto percorrere questa strada è così lungo (aggiungiamo agli esempi precedenti almeno quello di Kafka, o quello dello stesso Borges), che spesso, proprio in ragione di tale fatica, a questi autori sembra venga attribuita forse un po’ arbitrariamente una maggior tensione conoscitiva rispetto a chi ha motivato in modo meno diretto il proprio impegno.
2. Un caso fuori del comune
È difficile incontrare una concezione della pratica artistica tanto fiduciosa come quella che Joyce elaborò nei suoi anni giovanili e che si incontra trasfigurata nel Dedalus; il grado di questa difficoltà aumenta ancora se solo si considera che a questa concezione l’autore rimase fedele nel corso di tutta la sua opera.
Senza forzare la mano potremmo dire che le prove giovanili di Joyce sono tutte orientate allo sviluppo di una concezione artistica intesa a superare i limiti degli orientamenti presenti nell’epoca: questo processo prende le mosse con il saggio del 1904 Ritratto dell’artista, si sviluppa con lo Stephen Hero (Le gesta di Stephen, scritto fra il 1904 e il1905) e infine giunge alla sua definizione con il Portrait of the Artist as a Young Man, vale a dire il romanzo che in Italia e in Francia porta il titolo di Dedalus, scritto a partire dal 1907, pubblicato a puntate su «The Egoist» nel 1914-1915 e quindi in volume nel 1916.2
La motivazione di Joyce nella pratica artistica si fonda su una fiducia pressoché assoluta nel linguaggio come strumento di conoscenza. Vediamo il passo che segue, tratto da uno dei suoi primi saggi:
Le forme più alte del linguaggio, dello stile, della sintassi, della poesia, della retorica, sono campioni e interpreti della verità. Per questo nella figura della Retorica nella Chiesa di Santa Maria Novella si vede la verità riflessa nello specchio.3
La verità si può esprimere solo nello specchio del linguaggio: ecco la ragione per cui l’uomo deve praticarne le forme più alte. La concezione estetica che Joyce – allievo dei Gesuiti – esprime nel Dedalus si sviluppa come è noto a partire dalla dottrina di Tommaso d’Aquino secondo la quale l’appercezione di un oggetto passa attraverso tre fasi: integritas, consonantia e claritas (che il protagonista del romanzo interpreta come quidditas). In primo luogo si percepisce ciò che l’attenzione coglie come una cosa, separata dalle altre; quindi se ne percepiscono la struttura, l’equilibrio, le proporzioni, l’armonia interna e si arriva a comprenderla come cosa; per arrivare nel terzo stadio alla sintesi dei primi due, dove si assiste alla rivelazione “radiosa” della sostanza, dell’essere della cosa, ossia della sua irripetibilità. La claritas coincide con la sua essenza, la quidditas.4
La rappresentazione artistica deve quindi mirare a questa comprensione delle cose, non è intesa ad esprimere gli umori dell’autore. La posizione dell’artista deve porsi perciò sempre dietro o dopo l’opera, non diversamente da quanto scritto in una famosa e citatissima lettera di Flaubert a Mademoiselle Leroyer de Chantepie del 18 marzo 1857: «L’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione: invisibile e onnipresente; che lo si sente dappertutto, ma senza vederlo».5 Un passo che nel romanzo Joyce riprende fino a farne una parafrasi:
L’artista, al pari del Dio della creazione, rimane entro, o alle spalle, o al di là, o al di sopra del proprio capolavoro, invisibile, purificato fino ad essere inesistente, indifferente, inteso a limarsi le unghie.6
L’artista, nell’accezione medievale di uomo che esercita una particolare pratica, controlla soltanto i propri strumenti, quindi solo le parole, le frasi: le flaubertiane avventure della lingua. Non si espone, ma anzi, compiuta l’opera, le rimane quasi indifferente.
Questa concezione comporta da una parte l’umiltà dell’artigiano al lavoro nella bottega, dall’altra la consapevolezza dell’alto valore dell’arte, del quale Joyce aveva piena coscienza. Richard Ellmann ricordava che pur fra tante difficoltà materiali la fiducia dell’autore dell’Ulisse nel proprio lavoro era tale da portarlo a scrivere alla moglie nel 1912: «Spero che verrà un giorno in cui potrò darti la fama di essere con me quando entrerò nel mio regno».7
La sicurezza con la quale nel Dedalus Stephen riconosce la sua vocazione dopo l’esperienza epifanica vissuta nell’apparizione di ragazza che cammina in mezzo alla corrente, il riconoscimento di ciò che Stephen assume come proprio compito artistico e la difficile scelta dell’esilio come unica possibilità di esercitare liberamente la propria arte sono espressi con grande forza e vitalità.
La fede nella letteratura si afferma per Joyce al termine di un’esperienza di conversione, che progressivamente, alla dottrina dei Gesuiti, sostituisce l’arte. Non c’è quindi alcun dubbio che l’autore riservasse alla sua attività uno dei posti più in alto fra le occupazioni degne di essere esercitate.
In un primo momento si era concentrato sulla stesura di una serie di «epifanie», momenti rivelatori dell’essere della quotidianità dublinese, di grande rilievo conoscitivo, ma che tuttavia apparivano troppo statici per essere legati in una narrazione. Melchiori riassume il passaggio in cui Joyce mutò progressivamente opinione fino a definire i racconti che sarebbero poi confluiti in Gente di Dublino: «Non più come epifanie, ma come ‘epicleti’, una definizione mutuata dalla liturgia della chiesa orientale, indicante l’invocazione allo Spirito Santo perché operi la transustanziazione nell’ostia: non illuminazioni momentanee ma rivelazioni della natura interiore e segreta di una situazione o di un luogo che abbiano continuità nel tempo e nello spazio».8
Ecco testualmente il passo, determinante, di Joyce nel biglietto a C. P. Curran:
Sto scrivendo una serie di epicleti – dieci – per un giornale. Ne ho scritto uno. Chiamo la serie Dubliners per smascherare l’anima di quella emiplegia o paralisi che molti considerano una città. (…) 9
Nei termini presi a prestito dalla liturgia, cosa frequente in Joyce, scrivere un’opera significa dunque costruire qualcosa che possa valere come un’invocazione al divino perché possa transustanziarsi, ossia manifestarsi pienamente sotto le specie materiali. Sul fronte dell’opera si tratta di una posizione che mostra un’analogia e che anzi quasi anticipa alcuni passaggi di Heidegger in un saggio celebre, L’origine dell’opera d’arte, nel quale l’opera d’arte arriva a coincidere con l’erezione di un tempio in attesa che Dio venga ad abitarvi.10
3.
Davanti a una simile manifestazione di sicurezza, la necessità di seguire i tormenti di alcuni autori sembra meno significativa. D’accordo, è cosa rara, ma rende evidente che ce la si può fare. Crogiolarsi nella propria debolezza all’ombra dei dubbi dei maestri, darsi in pasto a quella che Dostoevskij nell’Idiota definiva magnificamente l’«estasi della propria delusione» – lo dico per esperienza – non è poi così fecondo. Nel secondo Novecento la letteratura ha ricominciato confidare sui propri strumenti senza doverli ogni volta riconquistare da zero, ha cominciato a fidarsi delle proprie capacità senza doverle sottoporle al confronto con una scoperta scientifica, il che è indispensabile solo nella prospettiva del Modernism. Borges, Gombrowicz, Nabokov, Pynchon, Bellow, Garcia Marquez e Kundera in questo senso hanno fornito esempi molto significativi.
L’esigenza di superare lo scoglio della legittimazione dell’attività letteraria («Perché dovrebbero stare a sentire proprio me? Solo perché sono bravo? Basta questo?») ha cominciato a cambiare di segno quando, oltre a guardare ai grandi autori ormai un po’ lontani nel tempo – che rappresentavano più che altro una sfida storica e teorica –, siamo tornati sull’esperienza degli autori stranieri e degli scrittori italiani nati negli anni Venti e poi Trenta del Novecento, che già da tempo erano oggetto delle nostre letture. O siamo tornati a libri più recenti. Questo non significa che le mode della metà degli anni Novanta fossero determinanti (non l’antologia Gioventù cannibale, ma neanche il culto diffuso per la storica, glorificata e discutibile traduzione di Adriana Motti del Giovane Holden, promossa a modello di stile). Si è così ricominciato a capire che si potevano prendere altre strade, e che c’era ancora tanto da fare. Ci si doveva, però, arrivare da soli. In effetti, a dispetto di quanto sostengono alcuni docenti delle scuole di scrittura – che insegnano a usare subito il deambulatore perché prima o poi arriverà l’ora di farlo – questa pratica rimane sempre una conquista personale.
Note
1. R. Bolaño, Tra parentesi, Milano, Adelphi, 2009, pp. 318-319.
2. Su questo passaggio, G. Melchiori, Joyce: il mestiere dello scrittore, Torino, Einaudi, 1994, p. 89.
3. J. Joyce, Lo studio delle lingue, in G. Melchiori, cit., p. 103. Si veda poi J. Joyce, Poesie e Prose, a cura di F. Ruggeri, Milano, Mondadori, 1992. Nell’affresco di Andrea di Bonaiuto la Retorica reca in mano il suo simbolo abituale, ossia un rotolo.
4. J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, London, Penguin, 1992, pp. 230-231; in italiano, Id, Dedalus, Milano, Mondadori, 1988., pp. 234-235.
5. G. Flaubert, L’opera e il suo doppio. Dalle lettere, Roma, Fazi, 2006, p. 206.
6. J. Joyce, Dedalus, cit., pp. 236-237.
7. R. Ellmann, Quattro dublinesi, Milano, Leonardo, 1989, p. 68.
8. G. Melchiori, Joyce: il mestiere dello scrittore, cit., p. 53.
9. Il biglietto di Joyce a Constantine P. Curran, datato probabilmente 1 o 8 agosto 1904, è riportato integralmente nel libro di Melchiori, a pp. 63-64. Si trova in J. Joyce, Lettere, Milano, Mondadori, 1974, pp. 47-48.
10. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 27-29.