Per quanto attiene al secondo aspetto, occorre ricordare che sussiste un nesso fra tassazione e produttività del lavoro che, almeno nel caso italiano, si è manifestato negli ultimi venti anni con segno negativo. In altri termini, i governi italiani che si sono succeduti dagli anni novanta ad oggi hanno costantemente aumentato la pressione fiscale, e soprattutto la hanno mal distribuita facendola gravare soprattutto sulle famiglie più povere, e ciò si è tradotto in minori salari netti e, per conseguenza, in calo dei consumi e della domanda interna. Il disegno di politica economica era pensato per provare a stimolare la crescita attraverso l’aumento delle esportazioni nette, secondo una sequenza che va dalla moderazione salariale alla riduzione dei prezzi dei prodotti venduti all’estero, all’aumento delle esportazioni (e alla contrazione delle importazioni, per effetto della minore domanda di beni di consumo) e – si riteneva – all’incremento del Pil. Ciò è avvenuto solo in parte, solo per alcuni periodi e, in una prospettiva di lungo periodo, con effetti poco significativi.
Si tratta di una linea di politica economica che sembra superata, al netto di quanto continua a proporre la Lega, ovvero l’uso della leva fiscale per generare trasferimenti di risorse nelle regioni più ricche e provare a farle ripartire attraverso incrementi di esportazioni delle imprese lì localizzate (in primis, Lombardia e Veneto). E’ bene chiarire che si tratta di una scommessa perdente. Storicamente l’Italia è sempre cresciuta quando più bassi sono stati i divari regionali fra Nord e Sud del Paese. Ed è bene ricordare che l’Italia non è un’economia autosufficiente, ovvero che è un’economia con forte dipendenza dalle importazioni di materie prime e che, dunque, più di altri Paesi con i quali compete sui mercati internazionali, ha bisogno di rilevanti flussi di importazione (si pensi al petrolio) per poter esportare. E’ semmai un’economia di trasformazione, ovvero un’economia che trasforma materie prime in prodotti intermedi o finali. In tal senso, la sua capacità di esportazione risulta fortemente dipendente dalle oscillazioni, in particolare, del prezzo del petrolio.
E’ così oggi come lo è stata storicamente: gli anni del cosiddetto miracolo economico italiano – dagli inizi degli anni sessanta agli inizi degli anni settanta – furono anni caratterizzati da un prezzo del greggio significativamente basso, che consentì (prima del doppio shock petrolifero degli anni settanta) di importare a costi contenuti per esportare e crescere. Furono anni anche caratterizzati da elevata mobilità sociale e un andamento sostenuto dei consumi (in particolare, elettrodomestici e automobili). Fu rilevante, in quegli anni, l’intervento pubblico non solo di regolamentazione ma di costruzione del Welfare: sia sufficiente ricordare, dopo il Piano Fanfani (1949-1963), per l’edilizia popolare, l’avvio della legislazione in materia di pensioni, sanità e scuola negli anni sessanta. E ciò si verificò con un continuo aumento del gettito fiscale (che aumentò dal 13 al 21 per cento in rapporto al Pil dal 1951 al 1962) e in assenza di incrementi significativi dell’indebitamento pubblico.
Se queste vicende possono insegnarci qualcosa, considerando ovviamente le modifiche sostanziali del contesto storico e istituzionale, si può concludere che una revisione del sistema tributario italiano in direzione di una sua maggiore progressività può porre le basi per una più equa distribuzione del reddito – sia fra gruppi sociali, sia fra Nord e Sud del Paese – con effetti di segno positivo, verosimilmente già di breve periodo, sulla produttività del lavoro e sul tasso di crescita.
[ “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 3 ottobre 2019 ]