Ho pensato a queste cose, partecipando a un incontro pomeridiano de Gli Amici della Musica in Galatina, incontro in cui, in un programma dedicato ai Lieder di Schubert e a quelli di Schumann, s’è scelto in maniera intelligente di occupare le pause necessarie tra un gruppo di Lieder e un altro, facendo leggere un testo critico a una giovane lettrice.
La sorpresa, almeno da parte mia, è stata l’aver udito una lettura con quella misura cui mi riferivo, senza un accento marcato, senza cacofonia, senza inutili eccessi enfatici, senza autocompiacimento. Ho pensato che avesse studiato dizione e m’è capitato di chiederle dove lo avesse fatto. Da nessuna parte – è stata la risposta. Allora le ho detto che solo nell’ultimo intervento era scivolata su una t che ne denunciava l’origine geografica, come quando un soprano che si cimenta in un Lied cede alla tentazione di prendere un acuto un po’ troppo alto perché sente di non raggiungere in quell’occasione il pieno della voce. Può accadere, e quando succede si percepisce.
Comunque sia, il fatto che fosse un solo episodio in quindici minuti complessivi di lettura di una lettrice la cui dizione corretta (a mio sentire) era spontanea e non frutto d’impostazione esterna mi sorprendeva, e il mio porre l’accento sulla circostanza, io che certo non sono depositario della fine dicitura, né sono un critico musicale, né tantomeno un musicista, è stato un complimento spontaneo, sebbene nascosto.
[“Il Galatino” anno XLIX, n. 8 del 29 aprile 2016, p. 5]