Mentre leggevo i versi di “Tutto è sempre ora”, mi tornava in mente il nome di Borges. Il nome e nient’altro. Non riuscivo a spiegarmi il motivo. Non ci sono analogie di poetica fra Prete e Borges, mi sembra; non credo neppure che lo scrittore argentino possa rientrare fra le suggestioni poetiche dell’uomo che da Copertino è andato a insegnare Letterature comparate all’università di Siena, che ha scritto saggi fondamentali.
Poi ho capito, verso la fine del libro. Senza che nessun verso costituisse un riferimento preciso. Ho capito quando al nome di Borges si è associato quel passo de “L’artefice” in cui racconta di un uomo che si propone il compito di disegnare il mondo.
“Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Ecco, dunque, l’analogia. E’ nella sentimentalità del paesaggio. Nella percezione consapevole o inconsapevole, ma inevitabile, di una rassomiglianza. Un luogo – un interno, un esterno-, a volte anche un oggetto – “il silenzio di una sedia”- rappresentano un tratto di volto, un’espressione dell’identità.
In fondo, il come siamo dipende anche dal dove siamo stati e dove siamo, dai luoghi dell’appartenenza (ma anche da quelli dell’inappartenenza, dell’esilio), dai luoghi del lontano e del vicino. Nella poesia di Antonio Prete i paesaggi sono, a volte, forme depositate sui fondali della memoria che la scrittura riporta in superficie. Una musica di banda nella piazza, le note di un’ouverture con lo squillo argentato dei clarinetti, perdute nell’aria di una sera di festa, tra le luci delle luminarie, ritornano, risuonano, nelle parole di una poesia.
Altre volte, sono immagini che passano continuamente negli occhi, che si ripresentano nitide, esatte, con tutta la significanza dei particolari, delle connotazioni che le configurano nella loro unicità. “La voce del sax fa capriole nell’aria. Un ragazzo suona, di la dall’aiuola. Sulle panchine di ferro, nel sole, donne scartano sandwich dai sacchetti”.
La scrittura in forma di poesia di Antonio Prete, si compone di due movimenti, di due avvicinamenti.
Il primo, volontario, è la ricerca che il soggetto che scrive fa del paesaggio, di quegli elementi che rappresentano tratti del volto, espressioni dell’essere, rivelazioni della rassomiglianza.
Il secondo movimento, involontario, consiste in una sorta di improvvisa apparizione degli elementi del paesaggio allo sguardo del soggetto che scrive.
Nel caso del movimento di ricerca, la parola si sviluppa come conseguenza di un processo di concettualizzazione.
Nel secondo caso, invece, la parola è una reazione rapidissima all’apparizione.
A questi due movimenti, che si verificano in una condizione di reciprocità, segue l’elaborazione testuale, la messa in scena dell’io nel paesaggio. E’ nel corso di questa fase che si accende la tensione verso “Quel punto dove il silenzio si sporge/ oltre il tacere”, dove forse si cela “ il nido della parola”.
Quel punto, quel nido, è la sfida, il tormento, l’assillo della parola. Trovare quel punto, o nient’altro. “Farsi prossimo/ all’intimo delle cose”, oppure rinunciare alla poesia, rassegnarsi alla parola consueta. Riuscire a “vedere le lettere disanimate/ muovere verso il nome”, comporsi in una figura di paesaggio che ti rassomiglia, trasformarsi in voce di vento, respiro di albero, affanno di nubi, oppure dirsi serenamente, onestamente, che non c’è giustificazione per l’arroganza e l’umiltà della scrittura.
Inabissare la parola fino a farle sentire “ il rumore dell’origine”, fino a farle “ scorgere l’alba del conoscere”, fino a farla essere sentimentalità. Questo vuole fare con la poesia Antonio Prete.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 18 settembre 2019]