di Antonio Errico
Molte sono le forme di scrittura con cui si confronta Antonio Prete: perché molte sono le modalità con cui si osserva il mondo, molti i metodi con i quali lo si interroga, molti e diversi gli sguardi che gli si rivolge, molte le interpretazioni delle storie che lo attraversano.
Così, a volte il mondo e le sue storie richiamano Prete ad una interpretazione che ha la forma del saggio, altre domandano la forma di una narrazione, altre ancora quelle della poesia. Accade anche, quasi costantemente, che nella sua scrittura saggio e narrazione abbiano confini intenzionalmente incerti, facilmente sovrapponibili, che sfuggono a qualsiasi formula predefinita, ai vincoli canonici, alle convenzioni di genere.
La scrittura di Prete si piega a quella che vorrei chiamare la sentimentalità degli esseri e delle cose: risponde ad una domanda di senso che subordina la forma al tono e all’intensità della domanda.
Una delle sue risposte è di pochi giorni fa: un libro di poesia che esce per Einaudi con il titolo di “Tutto è sempre ora”.
Non è una raccolta. E’ un libro poetico, con una struttura organica, coerente, coesa, che si dipana da un nucleo tematico e semantico che, volendo, si potrebbe sintetizzare nel termine “paesaggio”.
Certo, volendo si potrebbe. Però sarebbe una sintesi incompleta e in quanto tale anche inespressiva. Forse compiutamente si potrebbe dire “ L’ io nel paesaggio”. Non “un” io; ma “l” io. Quell’io preciso, identificabile, identificato, di colui che scrive: quella identità inequivocabile, irripetibile, unica, che si confronta, si (ri)guarda, si rispecchia in un profilo di nuvola, un fiore d’agave, le ombre tremolanti degli ulivi, l’apparizione di una luna nuova, un orizzonte, una duna, una riva, un lago di nebbia, un vicolo buio, la strada polverosa di un’infanzia, una lingua dialettale, antica.