Ad offrirgli il destro per ottenere il primo di quei due obiettivi, fu, paradossalmente, proprio il vecchio marchese.
Era costui un uomo di grande e raffinata cultura, di profonda e autentica fede cristiana, buono come un pezzo di pane, ma totalmente incapace di gestire il suo vasto patrimonio.
Invaghitosi del progetto di una cooperativa agricola che, nei suoi filantropici slanci ideali, avrebbe dovuto assicurare lavoro e benessere ai poveri contadini del paese e dei dintorni, si impelagò in investimenti sbagliati. Per mantenere in vita quella benedetta cooperativa si indebitò pesantemente. Alla fine cadde nelle grinfie di Petito Insatollo.
Nel giro di due anni al marchese non rimase altra scelta che cedere il palazzo, con gli splendidi arazzi, i quadri preziosi e i mobili antichi che lo arredavano, al suo creditore. Ne ebbe in cambio l’azzeramento del debito, una irrisoria somma di danaro e un piccolo podere con una casetta alla periferia del paese, dove riparò con la moglie e il figlioletto Edgardo. Si trattava del podere e della piccola casa natia dell’Insatollo.
Di ritorno dal notaio che aveva proceduto alla stipula del palazzo, Petito Insatollo cenò e bevve con maggiore ingordigia del solito.
Avvenne che durante la notte, forse perché oppresso dalla crapula e dal vino o perché esaltato dall’acquisizione del palazzo, vide, o gli sembrò di vedere, il diavolo.
Ma non un diavolo con le corna e la coda, come l’aveva visto da ragazzo in alcune illustrazioni, bensì un signore distinto e ben vestito, con tanto di gibus e frac. A vederlo così, non si sarebbe detto; ma che fosse il diavolo non c’erano dubbi.
– Petito, – gli disse – non crederai di essere diventato padrone del palazzo del marchese senza il mio intervento. Sono molti anni che ti aiuto in ogni modo. Ora, se tu mi sarai fedele, ti farò trovare l’antico tesoro. In cambio voglio la tua anima. Vivrai ricco come un nababbo per altri 66 anni; poi, tornerò a trovarti e dovrai darmi la tua anima.
– Non me ne importa niente dell’anima, – rispose Petito – prenditela pure! Ma il tesoro dov’è?
– Cerca nei sotterranei del palazzo marchesale – replicò il diavolo. E scomparve trotterellando sui suoi zoccoli caprini.
Il mattino seguente Petito Insatollo ingaggiò la migliore ditta edile del paese e, con la scusa di provvedere al consolidamento delle fondamenta del palazzo, iniziò la ricerca del tesoro. Ma scava di qua, scava di là, il tesoro non saltava fuori. I lavori si trascinavano ormai da diversi mesi e tutti avevano capito che l’Insatollo stava cercando il tesoro nascosto.
Nel frattempo il vecchio marchese, fiaccato dal fallimento di ogni sua impresa e provato dalla miseria, si ammalò gravemente e nel giro di pochi mesi morì. Ai funerali partecipò una folla oceanica, ma a piangerlo furono soprattutto i poveri del paese.
Il marchesino si industriava alla meno peggio per sbarcare il lunario, cacciando nel bosco vicino e lavorando personalmente il piccolo podere che gli era toccato in eredità. Per colmo di sventura, la marchesa, dopo la morte del marito, era caduta in uno stato di profonda prostrazione e trascinava i suoi giorni tra il letto e la poltrona.
Le ricerche ininterrotte e spasmodiche dell’Insatollo non portavano a niente. E dire che aveva già cambiato tre maestranze. Della quarta ditta cui aveva commesso i lavori facevano parte due fenomenali buontemponi, Cola Vurpe e Ciccio Balla, instancabili autori di buggerature e burle di ogni tipo. Dopo qualche giorno di lavoro nel palazzo, a costoro non parve vero di avere l’occasione di inscenare un falso ritrovamento del famigerato tesoro. Riempirono quindi tre pignatte di vecchie monete fuori corso, colmarono uno squinternato baule di fondi di bottiglie colorate e di bigiotteria varia, e nascosero il tutto tra le macerie dello scavo del giorno precedente. Attesero quindi le nove del mattino, ora in cui di solito l’usuraio scendeva a controllare lo stato dei lavori, e al momento opportuno diedero il fatidico colpo di piccone. Il rumore della terracotta frantumata e il tintinnio delle monete erano inequivocabili.
– Il tesoro, il tesoro! Abbiamo trovato il tesoro! – gridarono entrambi all’unisono.
Petito Insatollo piombò sul posto con la rapidità di un falco, con la bava alla bocca e gli occhi febbricitanti di cupidigia.
– Fermi tutti! Non toccate niente, brutti pezzenti. È tutta roba mia. Potete andare via. Ecco. Questa è la paga per la giornata intera. Via. Via. Andatevene via dal mio palazzo.
Quale non fu l’atroce delusione quando l’avido usuraio si accorse di essere stato buggerato. Cominciò ad urlare come un ossesso. Bestemmiava Dio, i santi e la Madonna. Malediceva i lavoranti e tutti gli abitanti del paese. Poi iniziò a buttare per strada sedie, vestiti, pentole, quadri, poltrone, bottiglie, scarpe e qualunque altra cosa che gli capitava sottomano. Alla fine non articolava più parole compiute. Un mugolio da bestia ferita a morte, indistinto e penoso, gli usciva dalla bocca. Fu necessario ricoverarlo in ospedale.
Dopo circa un mese da quel tragico evento seguito alla beffa del falso ritrovamento, il marchesino fece un sogno. Suo padre, sereno e sorridente come ormai il giovane marchese non lo ricordava più, gli parlava nel giardino del palazzo.
– Edgardo, figlio mio, lascia stare l’orto e la caccia. Cerca sotto la vecchia quercia che segna il confine del podere.
Appena sveglio, il marchesino corse subito alla quercia e si mise a scavare di buona lena. Dopo circa un’oretta di alacre fatica, ecco la sorpresa: un enorme baule con pesanti borchie metalliche. Lo aprì con una certa apprensione. Era colmo di innumerevoli pietre preziose, collane, bracciali e antiche monete d’oro. Aveva trovato il tesoro nascosto!
Con una parte del ricavato, il marchese Edgardo realizzò il sogno paterno. La cooperativa decollò in maniera stabile, portando i prodotti tipici del luogo nei paesi più impensati. Finalmente i poveri contadini potevano avere una vita dignitosa.
Petito Insatollo finì i suoi giorni in manicomio. Forse era quella l’anima cui si riferiva il diavolo? E pensare che il tesoro era nascosto proprio nel podere in cui era nato.
[“Il Galatino” a. LII – n. 14 del 13 settembre 2019, p. 3]