Il secondo intervento scorraniano è del 2017, dove dice che nell’artista parabitano «protagonisti della vicenda rappresentata sono due elementi: la terra e il legno. Terre argillose, marne, terreni ferrettizzati noti alla zappa del contadino o alla vanga dell’agricoltore o all’erpice o a tutta la numerosa famiglia degli oggetti di scavo, di scasso, destinati a incidere profondamente nel terreno o su quel terreno condurre la varia attrezzatura con la mano leggera richiesta da delicate coltivazioni» (v. Sosta nel laboratorio: quando nasce il silenzio).
Il terzo intervento, quello più recente (2019), dice che «la terra è, nei lavori di Enzo Fasano, si tratti di disegni o tarsie, la grande protagonista di ogni rappresentazione; ed è, al contempo, l’immagine chiamata a riempire lo spazio del foglio con la sua ‘presenza’ d’anima, non solo con il peso della sua rappresentata fisicità. Attraverso figure e gesti umani, attraverso la presenza di quella umanità che le conferisce le ragioni del suo imporsi in un luogo e in un tempo che le sono propri, la terra (la nostra, il Sud) resta centrale riferimento. Essa giustifica la fatica umana, il pensiero di chi ne coglie i segreti, lo slancio di chi l’ama ed in lei crede, l’attesa di chi alimenta la speranza di essere accolto ancora, nel suo abbraccio: l’abbraccio di chi a lei si consegna in un supremo atto di fiducia» (v. Enzo Fasano: e la terra, naturalmente, in «Presenza Taurisanese», marzo 2019).
Ritorno alla visita nello studio di Fasano e ai suoi ultimi disegni sugli ulivi morti del Salento. Lentamente l’artista mi sfila – foglio dopo foglio – i disegni, e in me, che osservo silenzioso le sue linee tremule dei contorni contorti della millenaria pianta, sale lo sgomento. Tale dolorosa sensazione l’avevo già vissuta almeno una decina d’anni fa quando, per la prima volta, in piena estate, mi accorsi di quel che stava accadendo agli alberi che per secoli hanno contraddistinto questo angolo d’Italia. Mi accorsi che il batterio attaccava, rosseggiandolo, prima un esiguo gruppo di foglie, poi, rapidamente, il rossore essiccante si estendeva a tutto l’albero. A quel punto era fatta: l’ulivo cominciava a essere un ulivo morto.
Non c’è nulla da vergognarsi se scrivo che cominciai a piangere. Vedevo morire sotto i miei occhi un patrimonio inestimabile di alberi (si tratta di circa 6 milioni di piante nel solo Salento leccese) la cui storia è stata emblema per migliaia di generazioni umane. Non è per un caso fortuito se il secondo libro scritto che l’umanità conosca – la Bibbia – ne parli in uno dei suoi più bei racconti, raffigurandolo come ramoscello di speranza nel becco della colomba che ritorna al profeta Noè ad annunciargli la fine del diluvio universale. E ancora, pensandolo nel mondo pagano, non fu certo una lotta titanica tra Atena (dea protettrice dell’ulivo) e suo fratello Poseidone (dio delle acque) nel dare il nome a quella città che si estendeva ai piede dell’Acropoli? Sappiamo come finì la disputa: ancora oggi quella città si chiama Atene.
Ecco. Le siluette dei disegni degli ulivi che l’artista Fasano mi stava sottoponendo, altro non mi provocava che quel dolore già vissuto, e che ora pensavo essere presente anche nell’animo del fine intarsiatore parabitano. Non poteva essere altrimenti. Chi ha coscienza della vita e della morte di ogni essere vivente sulla Terra, davanti a questa peste rossa degli ulivi salentini non può che dolersene. E Fasano è uomo e artista cosciente mostrando tutta la sua dolanza nel raffigurare i tronchi contorti delle piante, alle quali, alcune volte, cerca di dare sembianze umane, nella speranza di infondere loro un po’ di energia nel combattere la malattia.
Certo non è stato difficile per lui riuscire a trasmettere, attraverso il disegno, sensazioni dolorose in merito all’essicamento rapido evolutivo degli ulivi. Egli, da Maestro intarsiatore, conosce bene l’arte della raffigurazione, reale o fantastica che sia. Di ciò se n’era accorto Donato Valli, quando ebbe a scrivere che «è evidente che la concezione fantastica insiste su tutto l’universo di autoctonia culturale ed etnica che Enzo Fasano è andato costruendo durante la sua oramai lunga attività di maestro intarsiatore» (v. Omaggio, op. cit. 1997).
E non lontano dalla definizione di Valli, si colloca pure Ennio Bonea che, sempre nello stesso Omaggio, scrive che «Enzo Fasano frantuma la grande immagine simbolica in una più modesta penetrazione della realtà contadina preistorica e storica, servendosi della materia-albero; ma egli ha il grande merito di aver dato brillantezza ad una espressione d’arte non molto frequentata, l’intarsio, proprio come Pantaleone aveva fatto col mosaico [della Cattedrale di Otranto]» (v. op. cit.).
Ecco. Sono arrivato alla conclusione di questa sincera testimonianza sulla storia e sull’arte di Enzo Fasano, intarsiatore di Parabita. E mi scuserà l’amico Luigi Scorrano (siamo entrambi figli di Tuglie) se ricorro a lui ancora una volta in una citazione di un suo testo di qualche mese fa, che trovo calzante sulla problematica del dolore pittorico di Enzo Fasano a proposito dei nostri ulivi attaccati dall’essicamento rapido evolutivo. Scrive Luigi: «l’albero morto, unica presenza estranea in un paesaggio dolente ma pacificato, suggerisce l’anomalia, il tratto disarmonico che un intervento mal concepito e ancor più realizzato ha immesso in un quadro di equilibrio. Qui l’equilibrio è sconvolto, non semplicemente turbato. Qui il nero albero che si incide nella chiarità uniforme del fondo rimanda ad altri turbamenti. Qui la mano ladra dell’uomo ha introdotto il turbamento che non uccide ma distrugge gradualmente e muta il volto delle cose o tradisce il dono che l’uomo ha ricevuto con la gestione della natura. L’albero morto può essere l’atroce simbolo di una volontaria cieca violenza che distrugge nel nome della concorrenza sleale, della competizione in campo economico ma anche in quello delle occorrenze quotidiane. Ci sembra che l’artista [Enzo Fasano], pur superando talvolta il suo abito professionale, abbia da dire una parola che maggiormente passa il segno per unire la propria voce a quella di quanti difendono, in nome di un’umanità incancellabile, quello che in ogni uomo rende riconoscibile come l’uomo» (v. Legni nella luce dell’arte: l’opera di Enzo Fasano, maggio 2019).
[“Presenza taurisanese”, a. XXXVII – n. 8/9 – Agosto-Settembre 2019, p. 8]