E’ ovvio osservare che si tratta di un modello irripetibile, perché sono irripetibili le condizioni storiche che lo resero possibile. E tuttavia, a fronte di ciò, le vicende di quegli anni ci restituiscono un pezzo di teoria economica che nell’asfittico dibattito accademico italiano sembra quasi messo all’oblio, se non per le dovute ma rare eccezioni. La tesi oggi dominante fa riferimento alla cosiddetta teoria dell’austerità espansiva, secondo la quale riduzioni di spesa pubblica, ampliando i mercati di sbocco per le imprese private, incentivano gli investimenti di queste ultime, generando crescita e, al tempo stesso, riducendo il rapporto debito pubblico/Pil. Si tratta di una teoria destituita di fondamento innanzitutto sul piano empirico, almeno se ci si riferisce all’Italia. Gli anni nei quale le politiche di austerità sono state maggiormente accentuate (2012-2013) sono stati gli anni della più intensa recessione che l’economia italiana ha vissuto negli ultimi decenni. E sono stati gli anni nei quali è stato massimo il picco raggiunto dal debito pubblico in rapporto al Pil.
L’esperienza della golden age insegna che le aspettative imprenditoriali possono essere migliorate attraverso appropriati interventi di politica economica. Il settore pubblico italiano, in quel periodo, effettivamente contribuiva a stimolare la spesa privata: si pensi agli effetti positivi per la riduzione dei divari regionali derivati dall’azione della Cassa per il Mezzogiorno, all’azione del Fondo industrie meccaniche, istituito nel 1947, al contribuito dell’IRI (riorganizzato nel febbraio del 1948).
In sostanza, il miracolo economico italiano si rese possibile mediante un impulso rilevante dell’impresa pubblica all’aumento della domanda interna. Impulso al quale il settore privato reagì con incrementi di investimenti e, soprattutto, di esportazioni. Non mancarono i punti deboli. Fra questi, la crescita dell’evasione fiscale – in larga misura tollerata dai Governi a guida democristiana per obiettivi di acquisizione di consenso – l’elevata disoccupazione, la bassa spesa per la ricerca scientifica, una tassazione che favoriva l’aumento delle diseguaglianze: un insieme di non interventi che Fabrizio Barca ha suggestivamente definito il “compromesso senza riforme”. Punti deboli che, negli anni successivi e fino ad oggi, diventeranno purtroppo le caratteristiche essenziali del modello di sviluppo italiano.
Ciò che fondamentalmente manca all’economia italiana oggi è il primo tassello: l’impresa pubblica. Azzerata, di fatto, da un’ondata di privatizzazioni (soprattutto a partire dai primi anni novanta) che ha avuto, nella quasi totalità dei casi, il solo effetto di aumentare le tariffe dei servizi privatizzati – e non ci si poteva attendere un esito diverso dal momento che le privatizzazioni in Italia si sono realizzate come cessioni di monopoli. L’investimento pubblico, contrariamente a quanto teorizzato dalla tesi dell’austerità espansiva, è complementare all’investimento privato. Anche in questo caso, il riferimento a ciò che accadde negli anni del miracolo economico può aiutare a comprendere il punto. A seguito di un piano di lungo periodo di ammodernamento delle infrastrutture, i chilometri autostradali passarono dai 479 del 1950 ai quasi quattromila del 1973 (solo la Germania, in Europa, ne contava un numero superiore). E, non a caso, fu l’industria automobilistica il vero motore del miracolo economico.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 13 settembre 2019]