Cominciamo dal caso più semplice, la pronunzia del latino. Le più antiche documentazioni scritte in quella lingua sono remote, rimontano quasi agli albori della storia di Roma. Nel latino classico il nesso «-ti-» davanti a vocale (è il caso di gratia) veniva pronunziato con la vocale piena, come il «ti-» di tino. Quindi i latini del tempo di Cicerone leggevano come era scritto, con un trisillabo: «gra – ti – a», con «t» e non con «z», proprio come nella grafia; bene aveva scritto quell’imbianchino inconsapevole che il carabiniere intendeva rimproverare (a torto). Poi, con il passare del tempo, tra il II e il III secolo dopo Cristo, la pronunzia comincia a mutare lentamente, i grammatici del tempo avvertono che in «ti» si insinua un sibilus (così scrivono). Stanno mutando le condizioni storiche, Roma non è solida e potente come un tempo, si allenta la sua capacità di dirigere e indirizzare la società multiforme di un impero così vasto, anche la lingua è meno stabile. Passano i decenni. Un grammatico come Cassiodoro († 580-585 ca.), autore di un trattato De orthographia, registra il cambio di pronunzia, «ti» viene ormai pronunziato «zi». I latini dicevano ormai «grazia» (la nuova pronunzia) ma hanno continuato a scrivere nel modo di sempre, scrivevano in un modo e pronunziavano in un altro. La pronunzia di «ti» con «zi» che vige nelle nostre scuole rispecchia il mutamento linguistico; a rigore è corretta per il latino postclassico ed ecclesiastico, ma non corrisponde a quella esatta dell’epoca aurea.
Il fenomeno che abbiamo descritto non vale solo per il caso esaminato, è giusta la domanda del lettore. Un altro esempio. I latini scrivevano Cicero, nelle fasi antiche pronunziavano «Chichero», poi a partire dal III secolo quella pronunzia è stata abbandonata. Nei territori italiani si è pronunziato «Cicero», noi oggi diciamo «Cicerone». In termini generali possiamo affermare che nelle lingue storico-naturali, quelle che gli uomini adottano per comunicare tra loro, non esiste corrispondenza perfetta tra lettere e suoni (tra grafemi e fonemi, si dice in termini tecnici). La pronunzia cambia più o meno velocemente, la grafia si mantiene più stabile, conserva le vecchie abitudini scrittorie (a scrivere si impara a scuola, la scuola di norma si erge a custode delle regole).
La differenza tra grafia e pronunzia ci colpisce particolarmente quando studiamo le lingue straniere. Quale più quale meno, ci appaiono tutte caratterizzate da scarto notevole nel passaggio dal sistema grafico a quello fonetico. Si scrivono in un modo e si leggono in un altro, osserva l’attento lettore.
Vale la spiegazione già data per il latino. Per condizioni storiche e sociali la pronunzia muta, a volte velocemente. La grafia, più conservatrice, muta assai meno.
Il francese attuale corrisponde assai poco al francese antico. Con lo scorrere del tempo molte innovazioni fonetiche provenienti da Parigi si sono diffuse in tutta la Francia, fanno parte della norma del francese, ma la grafia non registra i mutamenti del parlato. Un esempio per tutti. Le classi popolari parigine pronunziavano «oi» come «uà» fin dal XVI secolo, ma questa pronunzia non veniva accettata dal francese ufficiale. Le cose cambiano con la rivoluzione del 1789: le classi popolari (i sans-coulottes) vanno al potere, l’aristocrazia e il clero sono spodestati, i sovrani e molti nobili sono ghigliottinati, ecc. La pronunzia delle classi popolari si impone. Il popolo pronunziava «ruà» la parola roi ‘re’, risultato della evoluzione del lat. regem (non cito i passaggi, non serve per il nostro ragionamento); con la rivoluzione la pronunzia «uà» per le forme scritte con «oi» si generalizza, diventa di tutti. Oggi quella è la pronunzia standard, la grafia continua tradizionalmente ad essere roi. Lingua e società in collegamento, come sempre, così vanno le cose. Ecco la risposta alla domanda iniziale, ecco perché in francese si scrive oiseau ‘uccello’ e si legge «uasò».
Ancora più forte è lo stacco tra grafia e pronunzia nell’inglese, lo sanno bene coloro che cercano di apprendere quella lingua, oggi la più universale. E il fenomeno continua. Uno studio dell’università di York prevede che tra qualche decennio il suono “interdentale” di «th» in mother sparirà dall’inglese, è troppo difficile per i molti stranieri che imparano quella lingua, sarà sostituito forse da un più facile «v», si dirà «muver», anche se si continuerà a scrivere mother. Io non so se quelle previsioni di avvereranno, chi può assicurarlo? Le previsioni in linguistica sono più difficili di quelle in meteorologia (e anche i meteorologi falliscono). Ma so per certo che la grafia di quella lingua resterà relativamente stabile, pur se la pronunzia sarà attraversata da molte novità determinate anche dall’incrociarsi di parlate diverse.
Nel corso della storia ogni lingua evolve secondo linee proprie di svolgimento. Tra le lingue romanze (così si chiamano quelle derivate dal latino), l’italiano è la lingua in cui la grafia meglio si collega alla pronuncia. Un notevole numero di lettere (i linguisti dicono grafemi), 11 su 21, indica stabilmente un sol suono (i linguisti dicono fonema). Il sistema non è rigido, la corrispondenza tra grafema e fonema non è assoluta. Ecco qualche esempio, altri potrei aggiungere. Nello scritto usiamo a volte una sola lettera per due suoni diversi, usiamo indifferentemente per cane e per cena, per gatto e per gelo, per casa (va pronunziato con la sorda) e per paradiso (va pronunziato con la sonora), per zio (va pronunziato con la sorda) e per zero (va pronunziato con la sonora). E altre “imperfezioni” potrei enumerare.
L’architettura del modello scritto oggi in uso viene stabilita nel Cinquecento, pur se oscillazioni e selezione delle diverse possibilità continuano a manifestarsi nei secoli seguenti. La relativa “imperfezione” del nostro alfabeto si spiega con l’evoluzione storica della nostra lingua, con le scelte collettive fatte da chi scrive. Ricordate? Fino a qualche decennio fa il plurale di un aggettivo come vario poteva scriversi varii (con due -ii), varî (con accento circonflesso), vari. Ormai abbiamo scelto, scriviamo solo vari.
In conclusione. Neanche in italiano esiste perfetta corrispondenza tra grafia e pronunzia (pur se nell’italiano lo scarto è assai inferiore rispetto a lingue europee vicine come il francese o l’inglese). Ce ne accorgiamo meno, abituati a scrivere come ci è stato insegnato. Ma facciamo attenzione. Dobbiamo rispettare rigorosamente le regole dello scrivere, non sono tollerabili deviazioni rispetto alla norma grafica corrente, in questo campo non esiste democrazia, non si può agire “ognuno come gli va”. Fabio Marri, che insegna a Bologna, spiega ai suoi studenti che l’ortografia è come un semaforo, a volte appare un po’ noiosa e quasi una perdita di tempo, ma per comunicare efficacemente dobbiamo rispettarne le regole. Vale per la lingua, vale per la società: dobbiamo rispettare le regole.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 6 novembre 2016, p. 10]