La ragione conduce all’esclusione della guerra

Perché Ulisse alla guerra non ci voleva andare. Per evitare di partire si era finto pazzo. Se ne stava sulla spiaggia e correva spingendo davanti a sé un aratro e seminando sale dentro i solchi. Era evidente che fosse pazzo. Allora Palamede, mandato da Menelao per reclutarlo, gli mise Telemaco in fasce in uno dei solchi sulla traiettoria dell’aratro, ma Ulisse lo scansò. Palamede rifece lo stesso gesto un’altra volta e un’altra, e Ulisse per altre due volte evitò di travolgere Telemaco con l’aratro.

Allora Palamede capì che non era pazzo. Fu in quel momento che per Ulisse cominciò a maturare il suo destino di eroe, quando dovette lasciare Penelope, Laerte Anticlea, Telemaco, Itaca, per una guerra che non voleva fare.

Così all’uomo che aveva comprato un (altro) libro su Ulisse venne da pensare che una delle prime cose che si possono imparare dalle sue storielle, è che ogni guerra è sempre e comunque da evitare, da rifiutare.

La guerra costringe le esistenze a diventare quello che non sono e non vogliono essere. Per la guerra e in conseguenza di essa, Ulisse deforma e trucca la sua identità: diventa Nessuno.

Molti uomini nelle loro guerre sono diventati nessuno.

Il libro divulgativo curato da Beta, reca come sottotitolo “Il viaggio della ragione”.

Un viaggio della ragione conduce all’esclusione della guerra. E’ il viaggio dell’insensatezza, della irragionevolezza, che include il conflitto.

Forse la guerra di Troia costituisce la metafora di tutte le guerre.

Un’altra delle cose che si possono imparare, è che ciascuno di noi trasforma il proprio modo di essere a seconda di quello che richiedono o pretendono o impongono le situazioni e le condizioni con cui ci si deve confrontare.

Ulisse non è un guerriero ma si trasforma e deve guerreggiare. Diventa uomo dalle molte astuzie, uomo dalle molte forme, colui che sa recitare, fingere, mentire, colui che sa molto sopportare, che sa osare con scaltrezza, violando i limiti e i vincoli con quella sua particolare forma di intelligenza chiamata metis, fondata sull’esperienza, pragmatica, concreta, che non categorizza ma si rivolge alla soluzione di specifici problemi, che adotta come metodo l’artificio, l’astuzia, lo stratagemma. Con questa intelligenza riesce ad espugnare le mura di Troia, riesce a salvarsi da Polifemo. Con questa intelligenza riesce a salvarsi la vita e a ritornare a Itaca, all’origine.

Ulisse non è narratore, non è neppure uomo che si commuove, che piange. Ma la sua esperienza che inizia con una guerra e poi sconfina dai territori del verosimile, gli insegna a raccontare, a commuoversi, a piangere. A sentire le spine della memoria e della nostalgia conficcarsi nella carne.

Ulisse piange quando ritrova la sua immagine nella memoria e nel racconto.

Alla corte dei Feaci, un aedo cieco racconta ai convitati della guerra di Troia, di Ulisse, delle sue imprese ardite, mirabolanti.

Ad un certo punto, uno di loro si copre il volto con il mantello e piange. Quel convitato è Ulisse, in incognito.

Ha scritto Hannah Arendt ne “La vita della mente”, che Ulisse non aveva mai pianto prima di quel momento. Non aveva mai pianto quando i fatti che sentiva raccontare erano veramente accaduti. Piange quando il racconto proietta le scene del personaggio che è diventato in una guerra e per una guerra che non voleva fare.

Forse si imparano molte cose leggendo le storielle di Ulisse e su Ulisse.

Per esempio, ancora: noi parliamo d’Europa. Ne parliamo molto, giustamente. Da queste parti, qui, a Sud, a Sud del Sud, l’Europa è un universo diverso, particolare. All’uomo sovviene quello che Vittorio Bodini diceva in due versi: “Il Sud ci fu padre/ e nostra madre l’Europa”.

Boitani ricorda che Ulisse rappresenta l’archeologia dell’immagine europea dell’uomo. E’ antico e moderno allo stesso tempo. E’ un ponte fra la configurazione del passato e quella del presente, un significato simbolico e culturale basilare nel sistema dell’immaginario individuale e collettivo. Ma poi: per comprendere il Novecento, i naufragi e le conquiste del Novecento, per comprendere i naufragi e le conquiste del secolo che corre, bisogna comprendere quella storiella che Dante scrisse su Ulisse, su quel corpo a corpo con l’ignoto, quella seduzione incontenibile del viaggio, quel desiderio smanioso di un oltrepassamento delle frontiere del pensiero, di una conoscenza ulteriore.

Fra le storielle che l’uomo ha letto di e su Ulisse, ci sono anche alcune pagine di Eugenio Scalfari che stanno in un libro intitolato “Per l’alto mare aperto”. In una di queste Scalfari scrive che Ulisse possiede tutti i requisiti per rappresentare il mito della modernità, l’intelligenza, l’attenzione alle cause e agli effetti che ne derivano, la razionalità dei moderni e le loro passioni, la loro volontà di potenza integrata dalla tolleranza.

Alle sette del mattino successivo, l’uomo e l’amico si ritrovano davanti alla solita edicola. L’uomo entra e chiede un’altra copia del libro su Ulisse, mentre l’edicolante e l’amico lo guardano sconcertati.

Rivolgendosi all’amico, l’uomo dice che quella copia però è per lui.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 8 settembre 2019]

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