Nella sua opera di resistenza, il Nostro ribadisce, con puntuale, arguta, pungente, dissacrante scrittura, che “una risata li seppellirà”. E la risata del Cinico, con la c maiuscola, quello, per intenderci, della scuola di Diogene. Nella seconda parte, Vincenti è un Giovenale dei nostri giorni, che guarda alle debolezze degli umani nella quotidiana corsa verso i beni materiali (“divertitevi ghiottoni, mangioni che siete,”). Un’estetica dell’esistenza; il senso dell’irrisione non come presunzione di chi si mette su di un piedistallo, ma di chi semmai è determinato a mantenere alto il proprio decoro, come insegnava Plotino: “non smettere mai di scolpire la tua statua”. Cinico anche perché è godere dell’istante. In una delle più belle liriche, “Mattino”, l’attesa del sacerdote ci arriva impaziente:“esce Afrodite dalle valve della conchiglia/e tra le spume un nuovo giorno si apre/il sacerdote intento nelle sacre abluzioni/ già pregusta il momento della ierogamia”… ovvero il momento dell’unione divina. All’unione divina corrisponde “la frenesia generativa illimitata.” Gli eccessi diventano una parte salutare, rompono le barriere tra gli umani, la società e gli dèi; aiutano la circolazione della forza, della vita, il frammentario ritrova una sua unità. Vivere l’attimo, quindi, coltivare il piacere dei sensi, lo sberleffo, l’ironia irriverente. Non diventare, in sostanza, schiavo di nulla, andare contro corrente, incurante degli altri e capovolgendo valori e consuetudini. Nel frastuono dei calici dello scempio che avanza, Vincenti ritaglia anche momenti di grande lirismo, versi cristallini come “Primavera greca” e “In viaggio”, che rivelano una tavolozza di colori tenui e delicati, a confermare le tante corde di un autentico scavezzacollo della parola.
[Prefazione al volume di Paolo Vincenti, L’una e tre, ArgoMenti, Lecce 2019]