di Rosario Coluccia
Nelle scorse settimane i media hanno rievocato, con toni molto partecipati, un evento di cinquant’anni fa: lo sbarco sulla luna degli astronauti americani Neil Armstrong e Buzz Aldrin, avvenuto il 20 luglio 1969. Per la prima volta nella storia due uomini toccarono il suolo lunare, cosa che prima di quella data era avvenuta solo nella fantasia di poeti e narratori. Il più noto di tali viaggi fantastici, diversi secoli prima dell’evento reale, è nel XXXIV canto dell’Orlando Furioso: Ariosto immagina che il paladino Astolfo si rechi sul nostro satellite (dove si raccolgono le cose che si perdono sulla terra), per recuperare il senno perso da Orlando a causa del tradimento di Angelica. È una missione necessaria affinché Orlando riacquisti la normalità, per dare il suo contributo decisivo alla guerra contro i Mori.
Armstrong e Aldrin trascorsero 2 ore e 31 minuti sulla superficie lunare, impegnati a fotografare, a raccogliere campioni di roccia, a fare tutto quanto era programmato. La loro missione fu seguita dalle televisioni di tutto il mondo (anche la Rai vi dedicò oltre 25 ore di diretta, affidandone la conduzione ad alcuni tra i migliori giornalisti dell’epoca). Il vocabolo allunaggio per indicare la ‘discesa di un veicolo spaziale sul suolo lunare’ entrò nella nostra lingua a partire dal 1959: un decennio prima che il fatto a cui allude riguardasse gli esseri umani, la parola fu usata con riferimento alla strumentazione in grado di raggiungere il satellite. «L’Unità» del 17 settembre 1959 scriveva: «L’osservatorio di Karkov […] è riuscito ad osservare anche l’allunaggio del razzo». Da quel momento il termine, di matrice tecnico-specialistica, tipico del linguaggio dell’astronautica, è entrato a far parte del repertorio di un numero abbastanza ampio di parlanti, che lo comprendono e sanno usarlo in maniera appropriata.