La deflazione è un problema dal momento che genera riduzione dei consumi e riduzione degli investimenti privati: nel primo caso, ciò accade a ragione dell’aspettativa, da parte dei consumatori, di ulteriori contrazioni dei prezzi (si pensi, a riguardo, a quanto è accaduto e ancora accade nel settore immobiliare); nel secondo caso, ciò si verifica perché gli imprenditori si attendono di vendere a prezzi più bassi rispetto ai costi di produzione.
La ripresa della crescita dell’economia italiana passa, dunque, innanzitutto, attraverso politiche che accrescano il tasso di inflazione e che dunque stimolino la crescita della domanda interna. Fra le varie possibili opzioni, una maggiore regolamentazione del mercato del lavoro potrebbe essere presa in considerazione. Un aumento dei salari, in un’economia come quella italiana con bassa propensione alle importazioni (se si fa eccezione delle materie prime), avrebbe effetti benefici sulla crescita per numerose ragioni:
- Un aumento dei salari fa crescere i consumi e l’aumento dei consumi fa crescere i ricavi, potendo consentire alle imprese maggiori investimenti.
- Un aumento dei salari può spingere le imprese a recuperare competitività attraverso investimenti in innovazione e, se ciò accade, l’effetto che si determina è un aumento della produttività del lavoro.
Quest’ultimo esito sarebbe particolarmente desiderabile in un’economia con un tasso di crescita della produttività in continuo declino e notevolmente inferiore alla media dei Paesi OCSE. A determinare questo esito hanno concorso numerose cause, fra le quali la crescente incidenza dei servizi sul Pil (anche questo è un fenomeno globale, anche in questo caso più accentuato in Italia). Il valore aggiunto prodotto nel terziario supera i due terzi del totale e la numerosità di addetti è aumentata dal 45% sul totale della forza-lavoro del 1974 al 70% circa dello scorso anno. L’aumento dell’incidenza dei servizi – e, per converso, la contrazione dell’incidenza dell’industria in senso stretto – viene considerata dalla gran parte degli economisti come il principale fattore di compressione della produttività, dal momento che nel settore terziario (si pensi al commercio, alla ristorazione, all’intrattenimento) rilevanti innovazioni tecnologiche sono pressoché impossibili da realizzare. A ciò si aggiunge il fatto che l’Italia ha di fatto rinunciato alla grande impresa e, ancor più, ha rinunciato all’impresa di Stato (si pensi alla dismissione dell’IRI e alla conseguente rinuncia a demandare all’operatore pubblico il fondamentale ruolo di promotore di innovazioni). In più, l’Italia ha sempre rinunciato a produrre innovazioni – anche negli anni del cosiddetto miracolo economico – scegliendo la soluzione apparentemente più semplice di importare beni intermedi che incorporano nuove tecnologie.
Queste dinamiche sono più accentuate nel Mezzogiorno, anche per effetto della maggiore deflazione nelle aree più deboli del Paese. I più bassi salari al Sud, combinati con l’età elevata della popolazione residente, tengono bassa la domanda, bassi i prezzi, riducendo consumi e investimenti.
Il cosiddetto Governo del cambiamento ha in realtà cambiato ben poco, anche per la sua breve durata. Un reale cambiamento – in tempi eccezionali, quali quelli che oggi viviamo – o quantomeno una prima inversione di rotta richiederebbe un più incisivo intervento pubblico: non per spesa corrente (come nel caso del reddito di cittadinanza) ma per l’assunzione, da parte dello Stato, di funzioni che il mercato spontaneamente non svolge. In primo luogo, tenere ragionevolmente elevati i salari, ripensando il sostanziale fallimento delle politiche di precarizzazione del lavoro, e soprattutto avviando un piano di lungo periodo di produzione pubblica di innovazioni.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 2 settembre 2019]