Quella difficile arte di narrare l’infanzia

Comunque sia, ciò che pensai nel vedere il libro, è che parlare della propria infanzia, come fa Virgilio per quadri narrativi, con stile piano e svelata nostalgia, è da considerarsi un genere letterario a sé, per la numerosità e la qualità delle opere pertinenti con cui fare i conti. Una lista incompleta può forse partire da “Infanzia berlinese” (Einaudi, 2007) di Walter Benjamin, anche qui quadri narrativi, qui espressi con l’apparente levità del flâneur che avrebbe poi cercato di esplorare ogni “passage” parigino. E poi, per rimanere in ambiente di lingua tedesca, nell’occuparsi del tema sarebbe difficile sfuggire alla prosa consapevole di Elias Canetti (“La lingua salvata”, Adelphi, 1991). Né si riuscirebbe a svicolare dall’incontro con il virtuosismo stilistico di Vladimir Nabokov in “Parla, ricordo” (Adelphi, 2010) o dal rigore della prosa asciutta di J. M. Coetzee (“Infanzia”, Einaudi, 2001) che emerge, però, da una dichiarata e pronunciata difficoltà emozionale. L’emozione, invece, non mancò all’ironia di Gerard Durrell e fu materiale per “La mia famiglia e altri animali” (Adelphi, 1997). Poi dovremmo ricordare la trasfigurazione della propria infanzia, l’immissione di elementi dichiaratamente d’invenzione: la propria storia inframmezzata da un’altra storia, immaginata e complementare, come scelse di fare Georges W. Perec (“W o il ricordo d’infanzia”, Einaudi, 2018). Capita anche che la scrittura faccia diventare il proprio vissuto, o meglio, la sua memoria che ne è reinvenzione, la sola radice una nuova invenzione, la storia di una fanciullezza attraversata con trepidazione, immaginazione e gioia, come emerge dalla delicatezza espressiva di Ray Bradbury ne “L’estate incantata” (Mondadori, ultima edizione 2019, un libro del 1957) e “Addio all’estate” (Mondadori, 2006), oppure una fanciullezza che esce attonita dall’aver attraversato l’orrore della disumanità e della distruzione, come fu per Imre Kertész in “Essere senza destino” (Feltrinelli, 2014).

È un tema, quello della propria infanzia, che richiede attenzione per non essere triti e atoni, o perfino scivolare, come non riesce ad evitare Ismail Kadare ne “La bambola” (La nave di Teseo, 2017), il modo con cui l’autore chiama la madre. E Kadare scivola per il tono “dall’alto” con cui guarda al padre e alla madre, alla quale esprime compassione per una sua – di lei – difficoltà emozionale/cognitiva. Kadare dichiara la natura superba del suo sguardo con il desiderio esplicito fare autocritica, ma il suo appare nient’altro che un artificio formale, e questo stride per la debolezza del rispetto offerto al ricordo. E avere rispetto non vuol dire evitare di scrivere degli eventi che furono come di essi si ha in coscienza memoria. Semmai coinvolge un senso di equilibrio, di misura, di prospettiva, di consapevolezza, di critica al proprio sguardo. Il rispetto è in sé un valore per la scrittura, e in questo lo è per la vita vissuta. Lo intende perfettamente Richard Ford, riuscendo a parlare della propria infanzia con delicatezza espressiva, pudore ed equilibrio stilistico (“Tra loro”, Feltrinelli, 2017), sebbene, però, con una radicale mancanza di sorriso, quel tipo di gioia che, invece, Blaise Pascal decise di scegliere per ragioni … di probabilità.

Leggere, riflettere, confrontare: è ciò che possiamo fare per sforzarci di rimanere consapevoli di noi stessi e di ciò che ci circonda. Nel farlo ci accorgiamo che nello scrivere lo stile partecipa in maniera essenziale della sostanza. Ne è esempio la circolarità ossessiva e l’esattezza della prosa di Thomas Bernhard (“L’origine”, Adelphi, 1992, per non abbandonare il tema del racconto della propria infanzia). Il tentativo di non confondersi in una medietà stilistica in cui i nomi degli autori siano sostanzialmente interscambiabili, distingue la letteratura da quanto si può annoverare alla categoria del chiacchiericcio pronto solo ad occhieggiare a qualche gruppo che si considera conveniente. E ciò è forse ancor più vero nell’affrontare il racconto della propria infanzia. Lo stile diventa – soprattutto in questo, ma anche in altri casi – misura della natura di chi scrive. Distingue lo sguardo attento, rigoroso, critico, dall’intemperanza del discolo che cerca rivalsa “postuma” o si perde in momenti d’infantilismo e disprezza al solo scopo di dispiacere ad alcuni vivi chi passò questa vita senza far nulla di rammentabile male ad alcuno.

Alla fine, è sempre una questione di qualità letteraria e, proprio in questo e per questo, di spessore umano.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 29 agosto 2019]

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1 risposta a Quella difficile arte di narrare l’infanzia

  1. wp_2601243 scrive:

    Caro Paolo,
    ti ringrazio per la menzione del mio libro. Va però precisato, per completezza di informazione, che il quadro in copertina nella seconda edizione di Infanzia salentina è opera di Marc Ronet, un artista francese, che ha liberamente interpretato un frammento del quadro di Velázquez. Il quadro in questione s’intitola La Ménine blonde, 31 maggio 2011, olio su tela, cm. 116 X 89, Collezione dell’artista.
    Gianluca Virgilio

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