La serratura senza chiave

E c’era un altro uomo, soprannominato dalla gente “Chetone Soppiattonovič Sorrisaev”. Costui era mite. Silenzioso. Sorridente. Non si faceva granché né sentire, né vedere, era sempre cheto cheto. Non si metteva in mostra, non strillava a squarciagola, non si gettava in discussioni, camminava nell’ombra. In poche parole, tutte e tre le definizioni – Chetone Soppiattonovič  Sorrisaev – non gli erano state date per caso in questa favola e cui non c’è nulla da aggiungere.

Successe che la gente doveva decidere di arginare uno stagno e di costruirvi sopra un grande mulino a dischi per segare il legname. Vantaev era arrivato per primo all’assemblea popolare, tutto trafelato. Agitava le braccia, arava con un sacco di belle parole, seminava con la lingua ogni sorta di promesse, erpicava di millanteria per se stesso. Se avesse dovuto germogliare, crescere e maturare ogni parola che disse, in tre anni non si sarebbe riusciti a finire tutto il raccolto.

Chetone Sorrisaev intanto stava seduto su un tronco d’albero abbattuto, taceva ed ascoltava ogni parola con un dolce sorriso sulle labbra, come se stesse mangiando delle caramelle.

Ebbene, discussero, valutarono ogni cosa, stabilirono l’ordine dei lavori, marcarono con pali la diga di terra, iniziarono a lavorare.

Lo spaccone Vantaev arrivò al lavoro con una camicia nuova di lino rosso-fuoco. Si rimboccò le maniche più in su delle spalle. Affilò la sua vanga al punto che, volendo,  ci si poteva fare la barba. Raschiò il manico della vanga con un pezzo di vetro e lo lustrò con una pezza di pelle. Abbellì pure il suo cappello di feltro con una piuma di gallo.

«Deh! Guardate, gente, quanto è bello il mio cappello!» si mise Vantaev subito a vantarsi. «Non solo mi protegge la testa e gli occhi dai raggi del sole, ma mi distingue anche da tutti gli altri. Con la piuma di gallo nel cappello, io sarò notato da tutti, così vedranno come io so lavorare sodo, come io vango la terra veloce veloce, come io innalzo la diga in quattro e quattr’otto!»

Invece Chetone Soppiattonovič venne a lavorare a passo lento lento, zitto, cheto cheto. Indossava una casacca e le braghe di tela ruvida, tessuta con rimanenze di fili di ogni colore, la palandrana dalle falde lunghe ed aveva una vanga comune, da niente. Si mise a vangare la terra in sordina e non aprì la bocca per tutto il tempo.

«Ecco, è questo un uomo come si deve!» – dissero gli anziani del circondario. «Non si mette in mostra. Non si comporta da galletto. Non è come quell’altro: io, io ed io.»

Passò una giornata, iniziò l’altra. Vantaev sbraitava senza fermarsi. Si mise pure a cantare a squarciagola:

Io sono abile, io sono sveglio,

io nessun lavoro temo…

Il lavoro terminò. A questo punto dovettero giudicare ognuno secondo il lavoro svolto. Gli anziani si misero a verificare chi e quanto aveva fatto. Contarono, misurarono, e quando ebbero il risultato definitivo, non credettero a loro stessi! E, non appena lo comunicarono alla popolazione, si sollevò un gran baccano.

«Come! Vantaev è il primo? Lui è riuscito a superare tutti gli altri? Aveva lavorato addirittura alla pari di sette uomini! Ma non è possibile! Bisogna ricontrollare daccapo tutti i risultati!»

Ebbene, si misero i giovani a verificare daccapo e rimisurare il lavoro svolto. Contarono per tutta la notte. Ma la mattina dopo dovettero stupirsi e stupire tutti gli altri assai più del giorno prima. Ma stupirsi o non stupirsi, l’entità del risultato comunque parlava chiaro. A conti fatti e rifatti veniva fuori che gli anziani avevano persino diminuito il risultato di Vantaev la sera precedente, per punirlo in questo modo per la sua insopportabile millanteria. Invece lui era riuscito a superare addirittura i dieci livelli medi di produzione di un solo lavoratore.

«Ma come hai fatto?»

E lui: «Io sono capace di ben altro! Io non ho lavorato affatto a piene forze. Risparmiavo l’amor proprio di Chetone. Quando ci metteremo a costruire il grande mulino-segheria, vedrete, mentre gli altri carpentieri ricavano travi dagli alberi e costruiscono un solo angolo del mulino, io ne costruirò tutti e tre i restanti. Io limerò talmente la mia scure, tanto la affilerò, che gli alberi si metteranno ad abbattersi in tronchi da soli per la paura. Perché io sono il vero maestro. Batto la scure nel punto giusto, preciso! Io lavoro come si deve, non come gli altri, che battono sette volte nello stesso punto…»

E continuò in questa maniera – io, io e io:

Io sono abile, io sono sveglio,

io nessun lavoro temo…

Ebbene. Cominciarono a costruire il mulino, ricavare le travi dai tronchi con le scuri.

Vantaev arrivò al lavoro con la camicia a casacca di seta, con delle belle braghe di velluto.

«Io non posso» – si vantava – «arrivare al lavoro come un povero straccione. Per me il lavoro è una vera festa, una giornata allegra. Se non ti fai notare mentre lavori, dove mai ancora lo potresti fare? Di certo non nelle danze. Di danzare è capace persino un orso, invece di farsi riscaldare l’anima con una scure, non tutti sono abili e capaci…»

Nuovamente si mise a cantare a squarciagola la sua canzone:

Io sono abile, io sono sveglio,

io nessun lavoro temo…

Ebbene, arrivò anche questa volta l’ora di giudicare il lavoro svolto. Arrivarono dal centro le autorità forestali per il collaudo e l’accettazione del mulino a dischi, per ricavare dal legname le assi segate. Erano loro gli appaltatori generali dell’opera. Tutti insieme, collaudatori e costruttori, si misero a contare gli angoli del mulino, a valutare l’adattamento degli incastri delle travi, la buona tenuta delle calafature delle fessure.

Vantaev, intanto, camminava in mezzo ai verificatori, come niente fosse, sogghignava e canticchiava la sua solita canzone:

Io sono abile, io sono sveglio,

io nessun lavoro temo…

Con un centinaio di occhi la squadra dei costruttori e dei verificatori cercò dei difetti nella costruzione. Non ci riuscì, tuttavia. Infatti, il popolo ama la verità vera. E la verità pur sempre verità rimane.

«Che fare? Come comportarsi? Possibile che proprio a Vantaev dobbiamo rendere gli onori? Possibile, che proprio a lui dobbiamo consegnare in dono-premio una bella scure e nominarlo vincitore e primo mastro del circondario?.. A questo strombazzatore del proprio ego! A questo Io, Io, Io, decuplicato! A questo insopportabile strillatore di “chicchirichi” per tutto il santo giorno!..»

Discuteva così la gente, mormorava, sussurrava il proprio disappunto. Ma a Vantaev non gliene importava nulla:

Io sono abile, io sono sveglio,

io nessun lavoro temo…

«Puh, ci hai proprio stufato!» – si indignavano gli anziani. «Vanto Vantaevič sciocco che non sei altro!»

Tuttavia non c’era nulla da fare. La cifra della valutazione conclusiva disse un’altra volta la sua ultima parola:

«Mettiti, Rumore Strillanovič Vantaev, nella prima fila di tutti i costruttori dalla parte destra della riga… Gli anziani del circondario, ti premieranno con una bella scure d’onore, come primo mastro tra tutti gli altri…»

Gli consegnarono la scure. Si complimentarono con il festeggiato e gli fecero tanti auguri. Il più anziano degli anziani si mise anche a pronunciare in suo onore un elogio. Pur soffocandosi con le parole che gli uscivano dalla bocca, ma lo dovette fare. Dovette esaltare il lavoro di Vantaev per rendergli gli onori dovuti. Mentre Sorrisaev, cheto cheto, se ne stava in disparte. Nell’ombra. Taciturno e con un pietoso sorriso sulle labbra. Da far stringere il cuore a chiunque.

Uno degli anziani notò Sorrisaev e disse: «Si dovrebbe gratificare anche lui in qualche modo. Perché è un uomo molto pacato, cheto, sorridente, umile e modesto.»

Ma nel merito entrò un altro anziano: «Sì, è molto pacato e cheto… Solo che la pacatezza e il sorriso non abbattono gli alberi, non ricavano le travi, non costruiscono i mulini, non arginano gli stagni e non innalzano le dighe.»

«Tuttavia la modestia abbellisce il mondo» – si intromise nella discussione il terzo vecchio. «L’umiltà, la compostezza e un dolce sorriso, sono quelli sì, a rallegrare il cuore…»

Qui ebbe inizio un’interminabile disputa. Soprattutto dal momento che un inebriante bicchierino fece il secondo giro tra gli uomini. Alcuni urlarono: «Un bel sorriso e capacità scarse mai danno i buoni frutti!»

Alcuni altri contraddissero: «Una parola è d’argento, ma è d’oro puro un buon silenzio!»

Gli altri ancora risposero in coro: «Chi si vanta da solo non vale un fagiolo! Un chiacchierone è come un tabacco brutto, tanto fumo puzzolente e nessun arrosto.»

Oppure: «Un chiacchierone è come fumo senza fuoco e senza arrosto, non scalda e non riempie lo stomaco!»

E gli altri ancora per contraddire: «Non era fumo senza fuoco. Non disse nulla che non fosse vero. Azzardava soltanto secondo le sue capacità e forze…»

… e così seguitarono ad andare avanti nell’intrecciare sempre più gli astuti ricami linguistici, brillare di dicerie, di una saggezza popolare e di proverbi. Continuano sino ai giorni nostri a discutere, non potendo arrivare al dunque. Proprio perciò la favola non riesce ad arrivare alla fine e continua a vivere come un volatile senza ali, come una lanterna senza luce, come una serratura senza chiave. Forse sarete capaci voi di trovare qualche grimaldello – sarebbe molto bello -, provate, se credete di poterlo trovare. A voi regalo questa favola mai finita. A voi tocca terminarla secondo il proprio credo e giudizio. Io, invece, non posso. Ho una gran premura. E’ arrivata l’ora di sfornare un’altra favola. E di servirla, dal fuoco e dal caldo, per voi in tavola.

Mangiatela, prego, finché è bella calda. Non dubitate, quest’altra avrà sicuramente la fine…

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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