Parliamo della bellezza, parliamo d’altro…

Dopo una Introduzione (pp. 7-26), nella quale si chiarisce che “questo libro mostra le tappe principali del percorso dell’idea di bellezza nella storia della civiltà occidentale”, ovvero è una “rassegna delle idee di bellezza attraverso i secoli” (p. 12), nel Capitolo primo, che occupa tutta la Parte prima del volume dal titolo L’enigma della bellezza (pp. 29-159), Pellegrino ricostruisce la lunga storia del concetto di bellezza, da Platone ai nostri giorni; prendendo le mosse, dunque, dalla definizione platonica dell’arte come mimesi, ovvero imitazione di imitazione, e del bello come “splendore del vero” (vedi la citazione in esergo). E’ da qui che si diparte tutta la riflessione del mondo occidentale sulla bellezza, attraverso Aristotele che, approfondendo l’intuizione platonica, rivendica il valore conoscitivo della poesia, e Plotino, che vede nell’Uno la molteplicità di vero, bene e bello ricondotta ad unità (vedi pp. 54-56), come sarà poi anche per Agostino, che definisce la bellezza come unità: “omnis pulchritudinis forma unitas est” (p. 39); arricchendosi poi in Tommaso del concetto di claritas, “lo spendore che brilla nella simmetria” (p. 10), secondo la definizione già presente in Plotino, che avrà molta fortuna nel Medioevo. Gli antichi, insomma, avevano ben chiaro che cosa fosse la bellezza e in che rapporto essa fosse con l’arte. Ne discutevano, certo, ma sempre avendo dei punti fermi ben precisi: che l’arte fosse sempre inferiore alla natura, che la dipendenza dell’uomo da Dio fosse cosa certa e che, dunque, all’uomo non fosse dato di creare, ma solo di imitare. Le cose cambiano in età moderna, quando improvvisamente tutto il patrimonio della conoscenza antica viene messo in crisi da un modo laico e spregiudicato di pensare. Albrecht Durer afferma per primo: “Che cosa sia la bellezza, non lo so” (citato anche in esergo). La domanda che si rivolge Durer non richiede una risposta, che in ogni caso sarebbe improbabile e inesaustiva. Scrive Pellegrino, dando spiegazione del titolo del capitolo: “Affinché il gioco dei significati resti aperto, non occorrono dimostrazioni perentorie: l’enigma è necessario più di ogni verità” (p. 58); e ancora , facendo eco a Durer: “… che cosa sia la bellezza non lo sappiamo” (ibidem). La bellezza, dunque, a partire da Durer, è un enigma, e in quanto tale, ha sollecitato infinite risposte, tutte legittime, tutte parziali. Per esempio, quella di Stendhal, che parla della bellezza come di “une promesse de bonheur”, che Adorno (citatissimo da Pellegrino) riprenderà in riferimento all’arte, con una significativa giunta: “L’arte è la promessa della felicità: una promessa che non viene mantenuta”. E già, lo dicevamo all’inizio, a proposito delle immagini allettanti della pubblicità. Per dirla con Pellegrino: “In quest’ottica s’inquadra il dispositivo messo in atto dall’industria culturale. Essa inserisce il bisogno di felicità in una programmazione e lo sfrutta…” (p. 61). In ogni caso, il dato di fondo è che, in questa impossibilità di sapere che cosa sia la bellezza, si innesta la definizione di Pellegrino, che per quanto appaia evasiva, e quella più appropriata per noi moderni: “… la bellezza è ciò che dà luogo al parlar d’altro. La bellezza diventa paradossalmente ciò che allontana l’attenzione da sé. Si potrebbe sostenere che, se c’è una possibile definizione della bellezza, non è tanto il suo allontanarsi in quanto trascendenza, ma è lo sfuggimento. E’ bello ciò che dà luogo a un parlare d’altro, ciò che si sottrae, ma non nel senso che dà l’impressione di non essere afferrabile. E’ bello ciò che ti spinge fuori. Se c’è una portata estatica nell’esperienza del bello, ebbene è questo spingerci via… Questa è la storia in cui siamo coinvolti…” (pp. 59-60). Queste scarne certezze, cui noi moderni siamo giunti sulla scorta di pensatori come Nietzsche, Heidegger e Benjamin – per citare solo alcuni dei più studiati da Pellegrino – è il risultato di un lungo lavoro filosofico che trova il suo momento fondante in quel periodo della filosofia tedesca tra fine Settecento e primo Ottocento che ha i suoi protagonisti in Kant ed Hegel: il primo intende l’estetica come una teoria della sensibilità (Critica del Giudizio), il secondo come una filosofia dell’arte (Estetica, soprattutto); al contrasto tra i due è da ricondurre in Italia la polemica tra Croce (Estetica, 1902), teorico dell’intuizione pura, e Gentile (Filosofia dell’arte, 1931) teorico di un’estetica “filosofica” (cfr. la n. 155 di p. 96).

Ed oggi? In un’epoca in cui da molto tempo la bellezza ha divorziato dall’arte – sin dal celebre Estetica del brutto (1853) del neohegeliano Karl Rosenkranz – che ne è della bellezza? Pellegrino pensa che, sebbene la bellezza sia stata destituita dal mondo dell’arte “è lecito formulare l’ipotesi di una dislocazione [della bellezza] dall’universo artistico al “mondo della vita” “ (p. 97), pur col rischio di “un’estetizzazione diffusa, con una marcata tendenza all’edonismo della quotidianità” (p. 98). L’homo aestheticus odierno vive in un “sensualismo collettivo” secondo il quale “niente è più davvero importante e quindi tutto diventa importante”, ragion per cui “l’attuale spirito del tempo può essere paragonato alla sensibilità barocca” (p. 99), e in esso rientra a pieno titolo il tarantismo: “la tradizione viene destoricizzata e riassorbita nell’ambito di un generale processo estetizzante” (p. 26). Peccato che l’autore non abbia approfondito questo aspetto della questione, a mio avviso eminentemente estetica! Ha preferito, invece, affrontare il tema (si veda la Parte terza intitolata De Martino e la tradizione del tarantismo pp. 295-340) dal punto di vista della contaminazione tra eredità orfico-dionisiaca e tradizione cristiana del culto di San Paolo (Cfr. dello stesso autore Il ritorno di Dioniso. Il dio dell’ebbrezza nella storia della civiltà occidentale, Congedo Editore, Galatina 2003), per infine dichiararsi convinto – a nostro avviso con ipotesi tutta da verificare e, comunque, da sottoporre a critica (per es.: che cosa ne avrebbe pensato Adorno del tarantismo?) – che nel tarantismo “sia depositato un prisma che imprigiona i colori della nostra antica identità collettiva” (p. 340).

La Parte seconda del libro intitolata Tra estetica e poetica (pp. 161-294) è divisa in sei capitoli. L’autore vi riporta alcuni saggi già apparsi in rivista o in altri volumi, come si evince dalla Nota bibliografica di p. 341: Alle origini della formazione della critica d’arte (2003), Il diario filosofico di Kant (1764-1768) (2003), Tendenze dell’estetica del Novecento (1999), Poetica e realtà sociale: Storie di contadini di Martino Abatelillo (1998), e infine, nella Parte terza, il già menzionato Dopo Schneider e De Martino: le nuove prospettive di ricerca sul mito e sul tarantismo (2001). Inedito è il capitolo VI della Seconda parte dal titolo Etica ed Estetica del Romanzo, nel quale l’autore passa in rassegna le posizioni filosofiche sulla questione di Croce, Adorno e Lucàcs, di cui ci risulta difficile dar conto nello spazio di una breve recensione, da cui non può che rimaner fuori tutta la vastissima erudizione dell’autore. Ma è certo che questo capitolo, rispetto agli altri, appare più rispondente alla prima parte del libro, costituendone un ottimo approfondimento. In particolare la conclusione di Pellegrino deve essere tenuta a mente da chiunque si accosti a questi temi, che cioè “l’etica, non la prurigine moralistica o quella strategicamente orientata, è il fondamento dell’estetica” (p. 294) e che ai narratori deve essere richiesto di “realizzare l’unica etica che appartiene a loro, l’etica del racconto” (ibidem). E su questo non si può che essere d’accordo.

[“Il Paese nuovo” di venerdì 8 maggio 2009, p. 7, col titolo Per parlar di bellezza].

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