di Gianluca Virgilio
Fare esperienza della bellezza è una pratica quotidiana da cui nessuno può rimanere escluso. Chi accetterebbe di acquistare per esempio un’auto, con quello che costa, se innanzitutto non fosse attratto della sua bellezza? Del resto, quale merce non è pubblicizzata da immagini sensoriali che sarebbe difficile non definire “belle”: giovani uomini e donne dall’indiscutibile bellezza ci persuadono in continuazione a spendere il guadagno ricavato dal nostro lavoro in prodotti di cui la loro immagine, quando non suggerisce analogie lusinghiere (cioè, che anche noi potremmo essere così belli se solo comprassimo quel prodotto), ne certifica la bontà, esperibile purtroppo solo dopo l’acquisto. E che dire della cura del corpo, pardon, dell’immagine, per la quale spendiamo una parte non trascurabile del nostro reddito? Insomma, siamo immersi, come si dice, nella società delle immagini, in cui quel che importa è l’”apparire”, dietro il quale, se c’è l’”essere”, bene, altrimenti pazienza! Ed invece importa molto, se è vero che una disciplina filosofica, l’estetica, è chiamata ad occuparsi del “fenomeno tipicamente postmoderno della estetizzazione diffusa”. Lo scrive Paolo Pellegrino in un libro di pp. 352 dal titolo La bellezza tra arte e tradizione (Congedo Editore, Galatina 2008, p. 115) che costituisce una riflessione densa ed articolata sulla “bellezza”. Il libro è un vero e proprio trattato di estetica, e non a caso compare tra i Manuali di Comunicazione come n. 5 di Eidos, Collana di testi e saggi diretta dallo stesso Pellegrino (Università del Salento – Centro Interdipartimentale di Studi di Estetica). L’estetica, ovvero quella “disciplina filosofica che si occupa dell’arte e del bello”, il cui “nome deriva dal greco aisthetiké, aggettivo sostantivato che sottintende episteme (scienza), e significa propriamente “dottrina della conoscenza sensibile” ”(p. 35).