Le autonomie regionali come concausa della stagnazione economica italiana

Cresce anche in modo significativo il debito pubblico, soprattutto per il continuo aumento della spesa per interessi sui titoli di Stato: dal 5% del 1980 a al 12% in rapporto al Pil del 1993. Un allarme muove le politiche economiche di quegli anni: l’elevata inflazione, che viene imputata interamente a salari eccessivamente elevati e non differenziati su scala regionale.     

L’Italia diventa un Paese propriamente dualistico e, negli anni successivi e fino a oggi, accenta questa caratteristica, con un Nord il cui settore industriale si irrobustisce e un Sud che viene sostanzialmente sussidiato e che volge verso una specializzazione produttiva sempre più orientata in settori tecnologicamente maturi (agroalimentare, turismo, settore dei servizi). Il Veneto – una delle regioni più povere d’Italia nei decenni successivi al termine della seconda guerra mondiale – comincia la sua traiettoria di crescita, beneficiando delle politiche di decentramento produttivo messe in atto dalla grande impresa del Nord-Ovest. Politiche che trovano la loro ragione nel tentativo (riuscito) di sedare i conflitti interni alla fabbrica che caratterizzano gli anni settanta e che si realizzano nella nascita di piccole unità produttive nel Nord-Est. A partire dalla fine degli anni ottanta, il Veneto trova la sua rappresentanza politica nella Lega Nord. La quota dei salari sul Pil comincia a contrarsi in modo rilevante.     

La richiesta di autonomia differenziata da parte di alcune regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) è il compimento, ad oggi, di questa tendenza. Si tratta della richiesta di trattenere in quei territori la massima parte delle tasse lì pagate, oltre che di trasferire alle regioni competenze fin qui proprie dello Stato: istruzione in primis. E’ stata suggestivamente definita secessione dei ricchi ed è motivata fondamentalmente con due argomenti:

  1. Le aree più ricche del Paese non possono più permettersi di concedere alle aree più povere trasferimenti perequativi, che non farebbero altro che finire nel calderone della spesa improduttiva, della corruzione, del clientelismo. D’altra parte – si sostiene – le stesse regioni meridionali avrebbero tutto da guadagnare dalla loro maggiore autonomia – e quindi da minori risorse pubbliche – dal momento che sarebbero maggiormente incentivate a fare uso produttivo di queste ultime.
  • L’arricchimento delle aree già più ricche del Paese favorirebbe anche le aree più povere per effetto di un meccanismo di locomotiva: se la crescita delle aree più ricche (ri) parte, la ricchezza lì prodotta ‘sgocciola’ nelle aree più povere. Come dire: se la locomotiva parte, trascina con sé anche i vagoni.

Vi sono buone ragioni per dubitare di questi argomenti e per sostenere che, semmai, l’autonomia differenziata – se pienamente realizzata – non solo danneggerebbe ulteriormente le regioni meridionali, ma potrebbe essere un ulteriore fattore di recessione.

Ciò a ragione delle seguenti circostanze.

  1. Le Regioni italiane più ricche sono tali perché le loro imprese (quantomeno quelle più innovative) sono legate tramite rapporti di subfornitura al capitale tedesco e dell’Europa continentale. È evidente che un rallentamento della crescita in quei Paesi – peraltro già in atto – produrrebbe, a cascata, un impoverimento delle aree, al momento, più ricche e, per conseguenza, minore crescita.
  • Un rallentamento del tasso di crescita genererebbe minori entrate fiscali e, in costanza di spesa pubblica, un aumento del debito pubblico in rapporto al Pil. E’ un esito ragionevolmente prevedibile, se si considera che il debito pubblico italiano è sempre aumentato in concomitanza con l’accentuarsi delle spinte autonomistiche e proprio a partire dall’istituzione delle Regioni.  
  • Il progetto secessionista genera incertezza (se non altro per la prospettiva di una maggiore confusione normativa, almeno nella fase di transizione al nuovo regime) e l’incertezza si associa al declino degli investimenti privati e, dunque, del tasso di crescita.

L’allarme degli sprechi e delle inefficienze è, in ultima analisi, all’origine del consenso che si è creato – in modo trasversale fra partiti politici – in ordine all’idea che l’economia italiana possa riprendere un percorso di crescita solo accentuando i divari regionali. Si tratta di un allarme in larga misura ingiustificato, dal momento che i) non è chiaro come possano essere quantificati gli sprechi e le inefficienze al Sud; ii) non è dimostrato – ed è difficilmente dimostrabile – che gli sprechi e le inefficienze siano maggiormente concentrati nelle regioni meridionali e che, per contro, le regioni del Nord siano sempre e necessariamente più virtuose. A titolo esemplificativo, si può considerare il caso della scuola. Secondo le regioni ‘secessioniste’ occorrerebbe differenziare gli stipendi degli insegnanti, aumentandoli al Nord e riducendoli al Sud. Ciò consentirebbe di attrarre docenti nelle scuole del Nord. Chi, in questo caso, spreca? Si potrebbe sostenere che lo facciano le regioni meridionali che non creano occasioni di lavoro per tutti i docenti che lì risiedono. Ma si potrebbe sostenere – altrettanto legittimamente – che a sprecare sono le regioni del Nord, in considerazione del fatto che non pongono le condizioni per disporre di un numero congruo di docenti lì residenti. Chi, in ultima analisi, dirime la questione?

Vi è infine da considerare che è fondata l’impressione che, al netto della crisi di governo in corso, il progetto secessionista verrà al più rinviato, ma non cassato dall’agenda dei prossimi governi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 28 agosto 2019]

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