La complessità della scrittura risultato di questo tempo indecifrabile

A volte si è oscuri in modo innocente. A volte si è come costretti ad esserlo dalla oscurità dei concetti oppure dei segni che rappresentano i tempi.

Diversa mi pareva l’oscurità linguistica dell’articolo che leggevo. Mi pareva presuntuosa, arrogante, supponente. Era come se volesse dire a me che stavo leggendo: tu non capisci niente di quello che dico, tu non puoi obiettare, tu non sei in grado di comprendere i riferimenti storici antropologici sociali economici finanziari. Tu non puoi capire le mie idee.

Certo, avrei potuto girare pagina, lasciarlo esattamente dove mi trovavo. Invece andavo avanti. Quasi che qualcosa mi costringesse a farlo. Mentre leggevo ripensavo a quello che diceva Primo Levi: chi non sa comunicare e lo fa in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia o alla noia. Beninteso, perché il messaggio sia valido, essere chiari è condizione necessaria ma non sufficiente. Si può essere chiari e noiosi, chiari e inutili, chiari e bugiardi, chiari e volgari.

Ripensavo a queste parole e andavo avanti, quasi che qualcosa mi attraesse, come fosse, che so, un intrico di vicoli in un borgo senza lampioni, che nell’oscurità ti lascia immaginare, fantasticare creature e storie.

Era un’attrazione esercitata dall’oscuro, o dal non chiaro, dai significati consapevolmente o inconsapevolmente nascosti, dalle ombre di ambiguità che si spandevano nelle frasi, nei periodi.

Potevo girare pagina, o chiudere la rivista, invece andavo avanti, invischiandomi in quella prosa artificiosa, tortuosa, sprofondando in quei canali sintattici che a stento si capiva da dove incominciassero e dove finissero. Mentre andavo avanti mi tornavano insistentemente le parole di Levi e mi chiedevo se per caso quell’oscurità non fosse più umile, più onesta, più sincera di tanta chiarezza. Come se quello che scriveva volesse dire: io non ti semplifico nulla, non mercanteggio, non addomestico lo stile. Ti sto chiedendo a tu per tu di fare uno sforzo che ti consenta di capire, non ti voglio aiutare, anzi ti invito a lasciare stare se non sei disponibile alla fatica. Esiste tanta filosofia, tanta poesia, che non possono sciogliersi in un linguaggio diverso da quello che usano. Non puoi chiedere di essere più semplice ad una formula di matematica, di fisica, di chimica; per quale motivo pretendi che lo debba essere un insieme di parole.

Potevo lasciare quell’articolo al punto esatto in cui ero arrivato, invece proseguivo. Invece mi addentravo in quel borgo senza luci che chiedeva di essere indagato nella sua oscurità perché quell’oscurità era, in quell’ora, il suo tempo e la sua natura. Al mattino sarebbe diventato tutto chiaro, tutto immediatamente visibile; però in quell’ora era oscuro e oscuro si presentava, naturalmente, senza una luce artificiale, senza fari che illuminassero corti e facciate di chiese e di palazzi che al (nel) buio proponevano forme da decifrare o da lasciare così com’erano: indecifrate.

Esistono forme di scrittura che diventerebbero insignificanti se obbedissero ai comandi della chiarezza. La letteratura, per esempio.

Una volta Giorgio Manganelli disse che quando Eliot scrisse “La terra desolata”, sembrò un provocatore. Ma poi Eliot diventò un classico, e la sua idea di oscurità ha insegnato per quali tenebrori sia possibile conseguire il fulmineo abbagliamento – non la chiarezza – della complessità.

Potevo smettere di leggere; potevo uscirmene dal borgo e consegnarmi alla notte del lungomare smagliante di luci dell’estate.

Però continuavo a leggere anche se non capivo bene quello che leggevo; però rimanevo nel borgo anche se molte cose non le vedevo chiaramente ma riuscivo soltanto a intravederle incertamente.

Allora, probabilmente ci si dovrebbe chiedere se quello che vogliamo da una scrittura sia la chiarezza o l’autenticità. Se una facilità sciapita o una difficoltà fascinosa, una linearità informe o una articolazione complessa, una comprensione immediata ma forse superficiale o una comprensione ricercata ma profonda.

Forse ci si dovrebbe chiedere se si vuole una scrittura coerente o incoerente e poi chiedersi – ancora- rispetto a che cosa la scrittura possa essere coerente o incoerente.

Ognuno indubbiamente ha una propria risposta.

La prima risposta che viene, a me, è che la coerenza o l’incoerenza della scrittura possano essere determinate dalla sua relazione con i tempi.

I tempi sono così, si diceva all’inizio: confusi, con segni semanticamente stratificati. Sono tempi a volte ambigui, enigmatici, complicati, complessi, contraddittori, con storie che hanno trame aggrovigliate, intrecci anche più aggrovigliati delle trame. Se si cerca una facilità di scrittura a qualsiasi costo, si corre il rischio che essa non si costituisca come una rappresentazione dei tempi ma che diventi una inespressiva, inconcludente, inefficace, smorta e forse anche ipocrita didascalia.

Diceva Levi che una comunicazione complicata è infelice e spande infelicità. Certo, può essere. Ma anche in questo caso si tratta di scegliere tra una dignitosa e sincera infelicità e una felicità grossolana e bugiarda.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 25 agosto 2019]

Questa voce è stata pubblicata in Prosa. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *