Cinquant’anni d’arte: intervista a Franco Cudazzo

Quali sono stati i tuoi referenti artistici?

Nella mia prima esperienza artistica, oltre al professore Palamà, ho imparato molto, attraverso i libri d’arte, da Medardo Rosso, Vincenzo Gemito, Giacomo Manzù, Gaetano Martinez ed altri.

Quando hai fatto la tua prima mostra?

Nel 1962, a Galatina, e fu una mostra di opere astratte, fatta insieme ad Antonio Stanca. Stanca, di Castrignano, mi aveva preceduto nell’arte astratta, mentre io ancora mi cimentavo con opere di carattere figurativo. Dopo l’esperienza figurativa degli anni Cinquanta, sull’onda del successo riscosso dall’arte astratta ed informale della Biennale di Venezia, anch’io, come molti altri artisti, sono passato attraverso l’esperienza astratta. Essendo giovane, sono stato coinvolto da quel movimento rivoluzionario, per approdare all’esperienza spaziale, sul modello di Lucio Fontana, interpretato a modo mio.

Quale esito ebbe questa mostra?

Non fu un grande successo. La gente non riusciva a capire, come non riesce in parte a capire tuttora, nonostante siano passati oltre cinquant’anni. La gente è abituata a vedere oggetti, forme della realtà, mentre l’arte astratta non rappresenta tutto questo, ma solo la visione spirituale dell’animo che si manifesta attraversa le forme e i colori. Anche Umberto Palamà è stato coinvolto dall’arte astratta, pur avendo un’età più avanzata rispetto a noi. Naturalmente, proprio la sua età e la sua cultura gli consentirono di darne un’interpretazione originale.

Come prosegue il tuo lavoro dopo la mostra del 1962?

Nel 1963 dovetti lasciare l’insegnamento per assolvere agli obblighi militari a Bologna, dove sono rimasto per circa due anni. Al rientro, non mi sono subito inserito nella scuola e allora, avendo necessità di lavorare, sono tornato a fare il falegname. Poi, con un amico e compagno di scuola, Salvatore Mariano, anche lui tornato da militare, mettemmo su una piccola bottega artigianale, dove si producevano e si vendevano lavori a sbalzo, in legno, in pietra ecc. Presto si aggiunsero due altri amici, anche loro ritornati da militare, Aldo Caprioli e Donato Cascione – quest’ultimo, un valentissimo pittore morto molti anni fa in un incidente stradale, mio assistente nel Liceo artistico di Lecce -. Eravamo un gruppo di artigiani-artisti, chiamato GALAS – Gruppo Artistico Liberi Artisti Salentini –, producevamo questi lavori presentandoli in alcune mostre. Poi mettemmo su un piccolo negozio in Corso Garibaldi, mentre la bottega era nel centro storico presso locali di proprietà di Salvatore Mariano. Tre di noi lavoravano nel laboratorio, mentre Aldo Caprioli si occupava del negozio. Siamo negli anni 1966-67. Allora c’erano pochi soldi, tant’è che nella Fiera Mercato di Galatina preferimmo avere il secondo premio, che prevedeva una compenso in denaro, che non il primo premio – che volevano darci -, che non prevedeva un compenso in denaro. Per noi i soldi erano fondamentali, perché non avevamo altre risorse per vivere.

Quanto durò quell’esperienza?

Per me due-tre anni. Nel 1967 io tornai a scuola, a Galatina, dove insegnai Progettazione nella sezione della Scultura. Dopo poco mi staccai dal gruppo GALAS. Dopo di me se ne andò Salvatore Mariano, che trovò un impiego nella Galbani, fuori dall’ambito artistico. Cascione entrò con me come assistente nel Liceo artistico a Lecce e abbandonò pure lui. Rimase solo Aldo Caprioli, che col tempo ha chiuso bottega, preso da altri interessi. Da allora lavorai fuori da ogni gruppo, da solo. Il laboratorio lo avevo dapprima in Piazza vecchia, poi in Via Antonio Vallone, da dove mi trasferii in Via del Balzo. Dal 1999 sono in Via Romani n. 4.

Come procedette allora il tuo lavoro?

Dopo quell’esperienza spaziale – lo spazio come esperienza fisica -, che per me rimane fondamentale, come pure la precedente esperienza figurativa (Medardo Rosso, Vincenzo Gemito, Giacomo Manzù, Gaetano Martinez), sono approdato all’ecologia, con l’uso della stoffa bruciata – sull’esempio di Alberto Burri, sebbene lui usasse le bruciature con intento estetico, mentre io le utilizzavo per significare la distruzione operata dall’uomo a danno della natura. Ho cominciato allora ad usare anche la terra, esibendo la terra, gli incendi, le devastazioni dell’uomo. Tutto ciò che ho sperimentato mi è sempre servito nella mia opera successiva, anche il lavoro di falegname.

Quali materiali hai usato?

Nelle prime opere usavo gesso e argilla. Poi ho usato legno, stoffa, terra, vari tipi di marmi – ma soprattutto il marmo di Carrara -, ecc. A me piace usare materiali poveri. Quando cammino per strada e osservo i materiali abbandonati, individuo subito quelli che potrei usare nel mio lavoro. Uso poco la pietra leccese.

Come mai il figlio di uno squadratore di pietra leccese usa così poco questo tipo di pietra?

La uso poco perché a scuola l’ho usata troppo. Inoltre, a me non interessa solo la materia, ma anche il colore. In natura esistono molte pietre colorate: usarle significa essere più vicino alla natura.

Come mai hai scelto l’ecologia come tema principale della tua opera?

Io ho sempre amato la natura. Ho ereditato da mia madre l’amore per la campagna. Mia madre ogni anno prendeva in affitto una campagna, dove passavamo l’estate. Del resto, faccio sempre giri in campagna alla ricerca di pietre da lavorare. Osservando lo scempio che l’uomo ha fatto della natura, ho voluto dare un mio piccolo contributo.

Accanto all’ecologia, quali altre tematiche presenta la tua opera?

Per me l’arte non è mai fine a se stessa – fatta solo per il piacere di rappresentare qualcosa -, per me l’arte ha un carattere sociale e anche morale, di denuncia. Mi sono interessato molto alla figura di Francesco D’Assisi.

Come hai interpretato la figura di Francesco?

Per me Francesco è un precursore della tematica ecologica. Francesco non è solo un personaggio storico, ma anche l’uomo del presente e del futuro. E’ un uomo, non solo un santo – almeno così io lo vedo -, un uomo che sì, è stato ispirato dalla trascendenza divina, ma è vissuto tra le persone del suo tempo, sulla terra, rispettando la terra.

Ricorre spesso nella tua opera la figura dell’uccello…

Sì, ho rappresentato molti uccelli morti, in particolare colombe, che per me significavano la distruzione della natura da parte dell’uomo. La colomba è un simbolo di pace, ma di una pace di là da venire. Molti anni fa c’era a Galatina un artigiano, di cui non ricordo il nome, che faceva degli uccellini di creta per venderli e guadagnare qualcosa. Questi uccellini erano appesi ad un elastico e il bambino poteva farli volare. Nella mia fantasia è rimasta l’immagine di questi uccellini che ritorna nella mia opera. Nel 1972 feci una mostra a Galatina, in cui esponevo uccelli morti in una gabbia a forma di globo, una sfera, all’interno della quale vi era un anche un uccello vivo. Volevo rappresentare la vita e la morte. Dissero che ero contro i cacciatori. Ricordo che un tale a me ignoto, molto spiritoso e incapace di comprendere quello che volevo dire, uccise altri uccelli e li mise vicino all’opera. Fu un brutto momento per me…

che però non ti ha impedito di continuare a lavorare… Noto che qui, nel tuo laboratorio, ci sono molte teste…

E’ vero, della figura umana la testa è la parte che mi impressiona di più e che riesco a caratterizzare meglio. Del resto è il volto che esprime meglio la personalità di un uomo o di una donna. In questo campo miei maestri sono Medardo Rosso, Vincenzo Gemito e poi lo stesso Umberto Palamà – che ha prodotto molte teste -.

Che tipo di committenza hai avuto finora?

Per la verità, di committenti ne ho avuto pochi finora. La mia arte non è commerciale, e tu sai che la gente non è molto disposta a comprare. La mia scelta non è stata quella di fare l’artigiano. Ho rinunciato a guadagnare per andare avanti sulla mia strada.

In realtà ci sono artisti che vendono molto e sono miliardari…

Sì, è vero, ma a me non interessava guadagnare con la mia produzione artistica. Avendo sempre insegnato a scuola, lo stipendio mi bastava per vivere. Inoltre, ho sempre voluto salvaguardare la mia libertà. Spesso la committenza impedisce all’artista di esprimersi liberamente. A me non interessa di guadagnare, ma solo di guadagnare per vivere, purché sia libero di fare quello che sento di dover fare.

Siamo in questo laboratorio, dove sono stipate centinaia di opere. Non sarebbe il caso di mostrarle agli altri?

Ho partecipato a molte mostre, e ti assicuro che ogni mostra ha comportato molta fatica, e questo distoglie dal lavoro. La verità è che io non sono commerciante di me stesso. Per questo conservo tanta produzione, che si è accumulata negli anni. E poi, qui da noi, ti chiedono di regalare le opere piuttosto che di comprarle.

Ti capisco, capita anche a me con i libri. Ma dimmi, Franco: tu lavori ormai a Galatina dagli anni Cinquanta. Che rapporto hai avuto con le Istituzioni locali. In altri termini, che tipo di politica culturale vi è stata a Galatina nei confronti degli artisti negli ultimi cinquant’anni?

Le Istituzioni locali non hanno dimostrato mai molto interesse nei confronti degli artisti. Per quanto mi riguarda, solo una volta, nel 2000, quando feci una mostra su Francesco d’Assisi, chiesi all’Amministrazione di fare un manifesto pubblicitario, spesa ottocento mila lire, e mi fu risposto che al massimo potevano darmi duecento mila lire, alle quali rinunciai, facendo tutto a mie spese. Oggi, l’attuale assessore alla Cultura, Cosimo Montagna, mi sta spronando, chiedendomi di realizzare una mostra sponsorizzata dal Comune. Vedremo. Per il resto gli Amministratori hanno sempre considerato l’arte come qualcosa di superfluo. Se si tratta di eventi musicali o d’altro tipo, si spendono molti soldi, per l’arte nulla. Speriamo che oggi si faccia qualcosa per il mio maestro, Umberto Palamà, che merita una mostra – anche se pare che in Comune ci siano altre priorità -.

Franco, tu hai quasi settant’anni e io ti auguro di campare altri cento anni. Ma, dimmi, alla fine tutte queste opere dove troveranno una collocazione?

Io ho un’idea, che spero vada in porto. Spero che almeno le opere riguardanti Francesco d’Assisi rimangano tutte insieme. Un’istituzione, civile o religiosa, potrebbe farsene carico, possibilmente a Galatina. Se il Comune di Galatina mi mettesse a disposizione una sala per un’esposizione dignitosa e permanente, io farei una donazione. La farei anche alla chiesa di Santa Caterina e al convento dei francescani, alle stesse condizioni. Se Galatina non fosse interessata, mi rivolgerò direttamente ad Assisi, dove dovrebbero essere sensibili all’argomento. Il resto delle opere andrà ai miei familiari, e saranno loro a disporne.

 (giugno 2007)

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2 risposte a Cinquant’anni d’arte: intervista a Franco Cudazzo

  1. Antonio Stanca scrive:

    Caro Virgilio, ripubblicando la tua bella intervista a Franco, comparsa su ‘Il Titano’ del 22 giugno 2018, e che io in questi giorni avevo già ripescato e riletto attentamente, hai compiuto un’ottima azione in sua memoria. Egli era uno dei più bravi artisti salentini, uno da definire ‘ultimo romantico’, poiché nelle sue opere ha saputo fondere il dramma esistenziale personale con le abilità tecnico-espressive. Con lui ho collaborato e realizzato tanti lavori ed iniziative. Nei primi anni ’60 ho appeso su una parete del mio studio un suo pensiero profetico: “Noi soffriamo e ci disperiamo per lasciare agli altri la realtà di un sacrificio umano”. Un caro saluto. Antonio Stanca

  2. wp_2601243 scrive:

    Da Antonio Stanca ricevo e volentieri pubblico questa testimonianza dal titolo Franco Cudazzo, un artista da non dimenticare.

    Mi capita sovente di leggere sui manifesti funebri il nome di amici, anziani come me, che non vedevo da un po’ in giro in quanto costretti per le precarie condizioni di salute a trascorrere gli ultimi anni di vita chiusi in casa o degenti in ospedali e in case di riposo. Mi sono particolarmente commosso, però, nel leggere il manifesto che annunciava il decesso, all’età di 82 anni, dell’amico Franco Cudazzo, scultore, pittore e incisore, nato a Galatina il 17 maggio 1938, ospite presso la Casa di Riposo ‘Giovanni Paolo II’ di Soleto, ultima sua residenza dopo essere scampato miracolosamente al contagio del Covid 19, che nella precedente RSA, dov’era ricoverato aveva ucciso 23 anziani. Proprio nella RSA ‘La fontanella’, l’anno scorso, prima dello scoppio dell’epidemia, ho potuto fargli visita per l’ultima volta insieme agli amici Totò De Pascalis e Gino Congedo, il più assiduo tra di noi a mantenere i contatti con lui. Ha abbandonato la vita terrena nell’ospedale di Galatina sabato 8 agosto 2020. Il giorno successivo, dopo il rito funebre nella chiesa di S. Biagio, celebrato con poche persone a causa del Coronavirus, è stato tumulato nell’edicola funeraria delle famiglie Vitellio-De Paolis del cimitero di Galatina. Per vari giorni, sono stato invaso da profonda tristezza, ma ho avvertito l’impulso di fare qualcosa -ed ecco le ragioni di questo mio articolo- per sensibilizzare i suoi famigliari ed eredi, l’opinione pubblica e le autorità competenti in modo da salvaguardarne la memoria e, soprattutto, di evitare la dispersione o l’incuria del patrimonio artistico, da lui prodotto in sessant’anni di lavoro, e quasi interamente conservato e catalogato nei locali del suo ultimo laboratorio galatinese, in Via dei Romani, 4, nei pressi dell’antica chiesetta di S. Rocco. Si tratta di centinaia di sculture a tutto tondo e a bassorilievo, realizzate in argilla, gesso, stoffa, spugna, legno, marmo e pietre varie, di pitture su tela e cartoncino e, in misura minore, di stampe numerate, ricavate da incisioni su lastre. Non mancano bozzetti, disegni, appunti e riflessioni sull’arte. Quest’immensa raccolta cominciò a formarla e ad ampliarla, partendo da Via Grotti, 21, abitazione della sua famiglia, composta dal padre Silvio, squadratore di pietra e scalpellino, dalla madre Antonietta, casalinga, dalle due sorelle, Irene e Maria, dai fratelli Salvatore e Pietro, falegnami, e Antonio, pittore d’infissi. Franco traslocava ogni volta tavoli, attrezzi ed opere nei vari Studi in affitto, che abbandonava dopo pochi anni per trasferirsi in un nuovo locale. Ed ecco le tappe di questa peregrinazione: Piazza Vecchia, 22, 1° P., di fronte alla Casa di tolleranza di Rosetta e, dopo, in un altro a P.T., s.n., in un vicoletto vicino, Via A. Vallone, 36 (ex forno a legna di Cretì), Via Umberto 1°,19, Via Del Balzo, 20 (ex falegnameria del suocero Mimmo Carrozzini), infine, dal 1999, Via dei Romani, 4 (ex casa d’abitazione in cui è vissuto per ventinove anni lo scultore Enzo Congedo con la sua famiglia, prima di sposarsi). Egli iniziò il suo percorso scolastico e formativo negli anni Cinquanta: dopo le Elementari, frequentò per cinque anni la Sezione ‘Lavorazione del legno’ della Scuola d’arte ‘G. Toma’ di Galatina, in Via Monte Grappa (ora sede dei Servizi sociali), per un anno la Sezione ‘Decorazione pittorica’ dell’Istituto d’arte ‘G. Pellegrino’ di Lecce in Viale Brindisi e, infine, tornò nel ’61 nella scuola galatinese, divenuta intanto Istituto Statale d’arte e trasferita nel nuovo edificio di Via G. Martinez, 4, per conseguire il titolo di Maestro d’arte nella Sezione ‘Scultura’. Dopo il diploma, per ampliare le sue conoscenze, si recava in visita negli Studi dei suoi ex docenti: il pittore e incisore Luigi Mariano, il restauratore Giovanni Pulcini e lo scultore Umberto Palamà (inizialmente nel Palazzo Palma, in Via XX Settembre e poi in Via XXIV Maggio, 5), il quale gli procurò il primo incarico d’insegnamento come assistente nella scuola d’origine. Ma prima del diploma aveva svolto il lavoro di falegname presso la bottega in Via Turati, 16-18, del valente artigiano Antonio Sforza, suo zio. Qui, dove mi recavo spesso alla fine degli anni Cinquanta per farmi costruire dei robusti pannelli di compensato intelaiato, adatti alle mie pesanti composizioni polimateriche, conobbi Franco e da allora ci siamo sempre tenuti in contatto. Negli anni successivi spesso m’invitava nei suoi Studi per mostrarmi le nuove opere prodotte e per conoscere il mio giudizio. Erano locali del centro storico con pareti e pavimenti umidi ma che, con le sue sculture, dislocate con un certo gusto e illuminate dai faretti, divenivano suggestivi palcoscenici di un teatro dell’assurdo. Non mancava mai un salottino per chiacchierare, con accanto le riviste d’arte, i settimanali, i romanzi di Dostoevskij, di Gide e di altri autori, una stufetta elettrica realizzata da lui, un giradischi con LP di musica classica con sinfonie di Wagner e di Beethoven e sulle pareti tanti disegni personali e foto della sua fidanzata ideale e virtuale, Claudia Cardinale. Nell’estate del ’62, quando aveva 24 anni, non avendo mai esposto in pubblico, mi pregò di fare una mostra insieme. Io avevo già all’attivo varie esposizioni con opere ispirate all’Informale e stavo maturando l’idea, concretizzatasi poi nel ’63, di non farne più e di realizzare un quadro-manifesto per affermare il tramonto del ruolo dell’artista e dell’opera d’arte e per auspicare il trasferimento della creatività in campi operativi più concreti, quali ad esempio il design. In tale decisione ero stato influenzato da alcune teorie, incentrate sul rapporto tra Arte e Vita, predicate dall’amico scultore Umberto Palamà, fervido sostenitore del Futurismo. A quell’epoca le sculture di Franco erano figurative, ispirate alla tradizione romantica, oppure molto stilizzate, appartenenti al ciclo, da lui denominato ‘Astratto figurativo’. Ritenevo che esse non fossero compatibili con le mie provocanti esaltazioni materiche e gli dissi quindi di no. Dopo qualche mese mi fece la sorpresa nel suo primo Studio di Piazza Vecchia di poter ammirare nuovi lavori: straordinarie e numerose sperimentazioni materiche, basate sulla sgocciolatura e spandimento d’inchiostri su carta bagnata e rilievi materici con buchi su pannelli di gesso. Voleva dimostrarmi che era pronto per la collettiva, che aprimmo al pubblico galatinese il 30 settembre 1962 nell’ampio locale, al n. 65 di Piazza Alighieri, con grande afflusso di pubblico ma con poca comprensione e accettazione. Dopo la mostra interruppe per due anni l’attività artistica per prestare servizio militare a Bologna. Al rientro, avendo perso l’incarico d’insegnante, tornò al lavoro in varie falegnamerie: del cugino Antonio Stanca, in Via Galatone, 54, di Rossetti, di Nuzzo e di Minafra. Alcuni mesi dopo, d’accordo con l’ex compagno di scuola Salvatore Mariano, costituì nel ’66 il gruppo G.A.L.A.S. (Gruppo Artistico Liberi Artisti Salentini), ampliatosi con l’adesione successiva di Donato Cascione e Gerardo (Aldo) Caprioli. Erano tutti bravi Maestri d’arte, disoccupati a causa del servizio militare, i quali, mettendo insieme competenze specifiche e tanta voglia di fare, riuscirono a produrre una serie di originali oggetti d’arredamento, caratterizzati dall’utilizzo di rilievi di rame a sbalzo, resi pittoricamente pregevoli mediante l’applicazione di acidi particolari, tanto da riuscire ad ottenere riconoscimenti e premi nelle varie rassegne. Per la realizzazione dei manufatti utilizzavano la vecchia casa di Vico S. Biagio, 21, di proprietà di Salvatore, mentre per il punto-vendita, affidato a Gerardo, avevano affittato un piccolo monolocale al n. 49 di C.so Garibaldi. Nel ’67 riprese ad insegnare, ma continuò per qualche anno ancora a partecipare alle mostre organizzate dal gruppo, che si scioglierà gradualmente, dapprima con l’abbandono di Mariano, assunto come rappresentante dalla Galbani, e poi di Cascione, scultore, ma più noto come pittore, fatto nominare da Franco suo assistente nel Liceo artistico di Lecce, il quale purtroppo perirà in un tragico incidente stradale all’età di cinquant’anni; anche Caprioli, rimasto solo, oltre a continuare a dedicarsi alla politica, al sindacato e all’associazionismo sportivo, si trasformerà in corniciaio con laboratorio al n. 67, sempre di C.so Garibaldi, un ambiente mal messo che, cessata l’attività, egli e i suoi numerosi amici utilizzeranno ogni sera come Circolo per una partita a carte, per discutere di tradizioni popolari, di politica, di cultura e, soprattutto per commentare con ironia e sarcasmo fatti e personaggi locali (gossip, in dialetto tajare), tanto da venire scherzosamente denominato Circulu de li ‘nfamuni. Cudazzo continuerà la sua ricerca espressiva, svolgendo in contemporanea l’attività d’insegnante negli istituti ad indirizzo artistico di Galatina e Lecce. Si unirà in matrimonio con Francesca Carrozzini e diventerà padre di Alessio e Vanessa.
    Egli, descrivendo l’iter cronologico della sua produzione, l’ha così suddiviso e intitolato: il Figurativo (1955-59), l’Astratto figurativo (1960-61), lo Spaziale (1962-68), l’Ecologico (1969-79, le Pietre e le terre (1980-89), gli omaggi a Francesco d’Assisi (1990-2000) e, infine, Artificio e Natura. Le creazioni nel corso di questi sette periodi, di cui il primo influenzato da Gaetano Martinez, Vincenzo Gemito, Medardo Rosso e Giacomo Manzù, seppure differenti per il genere stilistico e per le tematiche affrontate, evidenziano tuttavia una modalità espressiva così personale da permettere a chiunque d’individuare l’impronta dell’autore. Egli ha fatto conoscere le opere al pubblico in numerose rassegne, mostre personali e collettive in varie località salentine, tra cui Galatina, Gallipoli, Collepasso, Aradeo, Salve, Tricase, Lecce, Taranto, Torre Santa Susanna, Carmiano, Martano, Calimera, Maglie, Soleto, S. Vito dei Normanni, Otranto, Nardò, Corigliano d’Otranto, Tuglie, Cursi, Brindisi e in altre città italiane: Bari, Trieste, Venezia, Como, Borgo d’Ale (VC) e Roma. Ho avuto il piacere di esporre le mie opere insieme alle sue in alcune collettive. Oltre alle suddette mostre, era solito aprire ai visitatori e alle scolaresche il suo laboratorio, in cui si faceva intervistare, mentre mostrava e spiegava le opere. Ho approfittato di questa opportunità per portare i miei alunni di scuola media. Anche il suo amico Carmine Congedo, docente del Liceo scientifico di Galatina, ha preso la stessa iniziativa nel 2004, insieme ai colleghi Guida e Barone. Rossano Marra, direttore de ‘Il Galatino’, in segno di amicizia e stima, gli ha riservato ampio spazio sul N. 12 de ‘Il Titano’ del 26 giugno 2018, pubblicandogli le note biografiche e critiche, corredate dalle foto di 39 sue opere e da una bella intervista a cura dello scrittore Gianluca Virgilio. Franco era orgoglioso di venire premiato in varie rassegne e di collezionare giudizi lusinghieri di critici d’arte e studiosi, tra cui: Giovanni Amodio, Antonio Antonaci, Carlo Caggia, Nicola Cesari, Mario De Marco, Padre Antonio Febbraro, Pietro Liaci, Tonino Miccoli, Mario e Massimo Montinari, Umberto Palamà, Domenica Specchia, Antonio Stanca e Gianluca Virgilio. Essi gli hanno riconosciuto il merito di aver già intuito negli anni Settanta la gravità dell’inquinamento e della violenza verso la natura e di aver tentato con i suoi mezzi visivi di sensibilizzare l’opinione pubblica, esponendo provocatoriamente sculture in spugna e stoffa bruciacchiate, raffiguranti uomini e piante, oppure disegnando uccelli feriti e, talvolta, esposti dal vivo. Hanno anche colto la continuità, quasi un passaggio automatico, dal ciclo Ecologico a quello delle Pietre e terre, testimoniato da blocchi di pietra dura, da lui recuperati nelle campagne e che scolpiva e levigava solo in parte, per lasciare bene in vista le tracce della loro storia geologica: screpolature, fessure, erosioni e ossidazioni. Per le Terre preferiva l’ocra rossa, che però setacciava con cura per nobilitarla esteticamente. Anche del successivo ciclo di San Francesco hanno evidenziato la consequenzialità: era prevedibile che l’autore riscoprisse per analogia l’importanza del Poverello d’Assisi, candido cantore della madre natura. Hanno sottolineato una novità in questo passaggio: l’identificazione di Franco col Francesco medioevale, tanto da modellarlo con le mani e i piedi identici ai propri. Hanno ben visto nell’ultimo, Artificio e natura, la sintesi felice e armonica delle esperienze tecnico-espressive precedenti, agganciate però alle tematiche attuali. Io avrei d’aggiungere alcune riflessioni personali alle loro egregie disamine. La prima riguarda le interpretazioni di Pietre e terre. In esse ritrovo le tracce indelebili del gusto materico dell’Informale precedente, ma da lui convertito e calato mediante una maturazione concettuale, nella realtà territoriale: al gesso bianco per le sculture e ai pigmenti di colore per le pitture, provenienti da altre regioni geografiche, sostituisce le rocce e le terre del suo Salento. La seconda concerne la sua identificazione con il famoso Assisiate, la quale, secondo me, non è riconducibile soltanto all’affinità col tema ecologico, ma investe e comprende tutta la sua dimensione esistenziale. In lui, che predicava la povertà e che proponeva e praticava una religiosità semplice e autentica, osteggiato e incompreso dai contemporanei, Franco ritrovava le sue amarezze e delusioni provate non solo verso le ingiustizie e le storture della società moderna, ma, anche, verso la sua stessa vita infelice. Egli, ad esempio, che riteneva di aver rappresentato in modo artistico e originale il Santo e che sperava di poterlo agevolmente collocare nel vicino Convento francescano o nel Museo Civico, magari donandolo, si è visto rifiutato. Continuava a sperare sino agli ultimi giorni in un’accoglienza almeno ad Assisi o a Roma, dove il nuovo Papa, aveva scelto di chiamarsi Francesco. Nonostante producesse tanto, ben pochi erano gli acquirenti. Le sue stesse condizioni di salute non erano delle migliori e varie patologie lo affliggevano, costringendolo a diete scarne e rigorose. Era un uomo molto sensibile, un gran lavoratore, semplice ed onesto, talvolta un po’ ingenuo, scarsamente loquace, ma che non esitava a dissentire quando una tesi non gli garbava. Sul piano religioso si definiva cristiano e credeva nell’esistenza di Dio, su quello politico simpatizzava per il socialismo. Tutti i colleghi, tra cui gli scultori Vito d’Elia e Angelo De Santis, stretti collaboratori della Sezione ‘Scultura’, lo stimavano per le sue doti umane e artistiche; gli allievi erano contenti di avere un insegnante sempre disponibile ad aiutarli. Era assai amareggiato ad assistere alla graduale soppressione, a causa della riduzione del numero di allievi, della sua amata Sezione a vantaggio, invece, di quella nascente e più moderna di ‘Grafica pubblicitaria e fotografia’. Ad incrementare il suo pessimismo di fondo hanno inciso parecchio alcune lunghe e tristi vicende famigliari. Una persona quindi sfortunata e delusa, ma che trovava nell’attività artistica una ragione valida per continuare a vivere e che nelle opere riusciva a sublimare il suo dramma esistenziale in messaggio universale. A metà degli anni Sessanta, in attesa di riavere l’insegnamento, frequentò per alcuni mesi il mio Studio, in C.so Re d’Italia, 59, per collaborare nella progettazione di architetture e arredamenti, poi sospesa per la cronica morosità dei committenti. Ci cimentammo con buon esito a realizzare un’opera d’arte cinetica (andata in seguito distrutta), costituita da uno schermo con forme colorate astratte, in movimento sincronizzato con le note di un brano musicale, composto ed eseguito al pianoforte dal Maestro Bruno Massaro. Un giorno mi fece leggere una frase che aveva scritto su un foglio. Sorpreso e impressionato, presi subito quella scritta e l’attaccai sul muro, accanto ad un disegno ad inchiostro di mia sorella Lucietta, raffigurante in stile espressionista un volto umano sofferente. Quelle parole, nel ricordarle ora, dopo il suo addio, mi appaiono tremendamente profetiche: “Noi lottiamo e ci disperiamo per lasciare agli altri la realtà di un sacrificio umano”. Ed ora rivolgo, anche a nome di tanti amici e colleghi, un caloroso appello ai suoi famigliari ed eredi, al Signor Sindaco, all’Assessora alla cultura, al Priore del Convento di S. Caterina d’Alessandria a trovare una soluzione che consenta a tutta la cittadinanza di non privarsi delle opere di questo bravo artista galatinese o, almeno, di alcune di esse, in particolar modo di quelle in gesso, costituenti il gruppo denominato ‘Il mondo di Francesco’ di cm 500 x 150 x 150, realizzato nel 2000. Grazie.

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