Cinquant’anni d’arte: intervista a Franco Cudazzo

a cura di Gianluca Virgilio

[In occasione della scomparsa di Franco Cudazzo (8 agosto 2020), ripubblichiamo l’intervista che ci ha rilasciato qualche anno fa, come estremo omaggio alla sua memoria e alla sua arte.]

Franco Cudazzo, Captivus (1989), terracotta.

Franco, volendo fare un bilancio della tua carriera artistica, mi sembra giusto iniziare dalle origini. Mi vuoi parlare della tua famiglia?

Provengo da una famiglia di umili origini, mio padre era un muratore, uno squadratore di pietra leccese, che poi, col passare degli anni, si è dedicato a fare cornici, capitelli ed altro. Mia madre era casalinga, come pure le mie due sorelle, dei fratelli maschi due erano falegnami e uno pittore di infissi, muri, ecc. Io stesso ho frequentato la bottega di falegname di mio zio, Antonio Sforza, che era un artigiano di infissi (ma anche di mobili), molto bravo, uno dei migliori della provincia di Lecce. Poi ho frequentato i laboratori di Antonio Stanca, nipote e allievo di mio zio, e i laboratorio di Rossetti, Nuzzo e Minafra.

Quale scuola hai frequentato?

Essendo nato nel 1938, ho iniziato la Scuola d’Arte a Galatina intorno al 1950. L’ho frequentata per cinque anni (sezione di Laboratorio del legno), poi per un anno a Lecce ho frequentato l’Istituto d’Arte (sezione di Pittura), infine mi sono diplomato a Galatina nel 1961 in Scultura, conseguendo il diploma di maestro d’arte.

Riassumendo, la tua formazione avviene in parte nelle botteghe artigiane di Galatina, in parte nella scuola?

Sì, in più frequentavo le case di alcuni miei insegnanti, per esempio la casa e lo studio del professore Luigi Mariano, un pittore eccellente. Ci andavamo per posare – egli si serviva degli allievi per farli posare – e un po’ ci usava come garzoni. Per me era importante questa frequentazione perché imparavo molto. Di Mariano è rimasta una grande produzione – prima che morisse fece una bella mostra al Museo Castromediano di Lecce -. A Galatina non credo che abbia esposto mai, era una persona molto riservata. Tutta la sua produzione ce l’hanno i suoi familiari, ma è sconosciuto ai più. Nessuno ha pensato a valorizzarlo. Poi c’era il professore Giovanni Pulcini, di Ancona, che insegnava a Galatina nella sezione del legno. Non solo era un mio insegnante, ma spesso andavo a casa sua, dove scolpiva mobili con piedi in stile classico – intagliavamo foglie d’acanto, tarsie, facevamo restauri; Pulcini era un ottimo restauratore -. Infine ho frequentato il professore Umberto Palamà, originario di Sogliano Cavour, ma trasferitosi a Galatina negli anni Cinquanta. Per lui io ero come un figlio. Aveva lo studio dapprima nei pressi della stazione – abitava nel Palazzo Palma in Via XX settembre -, poi comprò una casa sempre lì nei pressi, una parte di quel palazzo. Palamà aveva un grande rispetto nei miei confronti, è stato il primo a capirmi, a rilevare alcuni valori plastici che caratterizzavano il mio lavoro. Grazie a lui ho abbandonato il lavoro artigianale per entrare nel mondo dell’arte, tornando a studiare a scuola. Dedico a lui tutto ciò che ho fatto.

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2 risposte a Cinquant’anni d’arte: intervista a Franco Cudazzo

  1. Antonio Stanca scrive:

    Caro Virgilio, ripubblicando la tua bella intervista a Franco, comparsa su ‘Il Titano’ del 22 giugno 2018, e che io in questi giorni avevo già ripescato e riletto attentamente, hai compiuto un’ottima azione in sua memoria. Egli era uno dei più bravi artisti salentini, uno da definire ‘ultimo romantico’, poiché nelle sue opere ha saputo fondere il dramma esistenziale personale con le abilità tecnico-espressive. Con lui ho collaborato e realizzato tanti lavori ed iniziative. Nei primi anni ’60 ho appeso su una parete del mio studio un suo pensiero profetico: “Noi soffriamo e ci disperiamo per lasciare agli altri la realtà di un sacrificio umano”. Un caro saluto. Antonio Stanca

  2. wp_2601243 scrive:

    Da Antonio Stanca ricevo e volentieri pubblico questa testimonianza dal titolo Franco Cudazzo, un artista da non dimenticare.

    Mi capita sovente di leggere sui manifesti funebri il nome di amici, anziani come me, che non vedevo da un po’ in giro in quanto costretti per le precarie condizioni di salute a trascorrere gli ultimi anni di vita chiusi in casa o degenti in ospedali e in case di riposo. Mi sono particolarmente commosso, però, nel leggere il manifesto che annunciava il decesso, all’età di 82 anni, dell’amico Franco Cudazzo, scultore, pittore e incisore, nato a Galatina il 17 maggio 1938, ospite presso la Casa di Riposo ‘Giovanni Paolo II’ di Soleto, ultima sua residenza dopo essere scampato miracolosamente al contagio del Covid 19, che nella precedente RSA, dov’era ricoverato aveva ucciso 23 anziani. Proprio nella RSA ‘La fontanella’, l’anno scorso, prima dello scoppio dell’epidemia, ho potuto fargli visita per l’ultima volta insieme agli amici Totò De Pascalis e Gino Congedo, il più assiduo tra di noi a mantenere i contatti con lui. Ha abbandonato la vita terrena nell’ospedale di Galatina sabato 8 agosto 2020. Il giorno successivo, dopo il rito funebre nella chiesa di S. Biagio, celebrato con poche persone a causa del Coronavirus, è stato tumulato nell’edicola funeraria delle famiglie Vitellio-De Paolis del cimitero di Galatina. Per vari giorni, sono stato invaso da profonda tristezza, ma ho avvertito l’impulso di fare qualcosa -ed ecco le ragioni di questo mio articolo- per sensibilizzare i suoi famigliari ed eredi, l’opinione pubblica e le autorità competenti in modo da salvaguardarne la memoria e, soprattutto, di evitare la dispersione o l’incuria del patrimonio artistico, da lui prodotto in sessant’anni di lavoro, e quasi interamente conservato e catalogato nei locali del suo ultimo laboratorio galatinese, in Via dei Romani, 4, nei pressi dell’antica chiesetta di S. Rocco. Si tratta di centinaia di sculture a tutto tondo e a bassorilievo, realizzate in argilla, gesso, stoffa, spugna, legno, marmo e pietre varie, di pitture su tela e cartoncino e, in misura minore, di stampe numerate, ricavate da incisioni su lastre. Non mancano bozzetti, disegni, appunti e riflessioni sull’arte. Quest’immensa raccolta cominciò a formarla e ad ampliarla, partendo da Via Grotti, 21, abitazione della sua famiglia, composta dal padre Silvio, squadratore di pietra e scalpellino, dalla madre Antonietta, casalinga, dalle due sorelle, Irene e Maria, dai fratelli Salvatore e Pietro, falegnami, e Antonio, pittore d’infissi. Franco traslocava ogni volta tavoli, attrezzi ed opere nei vari Studi in affitto, che abbandonava dopo pochi anni per trasferirsi in un nuovo locale. Ed ecco le tappe di questa peregrinazione: Piazza Vecchia, 22, 1° P., di fronte alla Casa di tolleranza di Rosetta e, dopo, in un altro a P.T., s.n., in un vicoletto vicino, Via A. Vallone, 36 (ex forno a legna di Cretì), Via Umberto 1°,19, Via Del Balzo, 20 (ex falegnameria del suocero Mimmo Carrozzini), infine, dal 1999, Via dei Romani, 4 (ex casa d’abitazione in cui è vissuto per ventinove anni lo scultore Enzo Congedo con la sua famiglia, prima di sposarsi). Egli iniziò il suo percorso scolastico e formativo negli anni Cinquanta: dopo le Elementari, frequentò per cinque anni la Sezione ‘Lavorazione del legno’ della Scuola d’arte ‘G. Toma’ di Galatina, in Via Monte Grappa (ora sede dei Servizi sociali), per un anno la Sezione ‘Decorazione pittorica’ dell’Istituto d’arte ‘G. Pellegrino’ di Lecce in Viale Brindisi e, infine, tornò nel ’61 nella scuola galatinese, divenuta intanto Istituto Statale d’arte e trasferita nel nuovo edificio di Via G. Martinez, 4, per conseguire il titolo di Maestro d’arte nella Sezione ‘Scultura’. Dopo il diploma, per ampliare le sue conoscenze, si recava in visita negli Studi dei suoi ex docenti: il pittore e incisore Luigi Mariano, il restauratore Giovanni Pulcini e lo scultore Umberto Palamà (inizialmente nel Palazzo Palma, in Via XX Settembre e poi in Via XXIV Maggio, 5), il quale gli procurò il primo incarico d’insegnamento come assistente nella scuola d’origine. Ma prima del diploma aveva svolto il lavoro di falegname presso la bottega in Via Turati, 16-18, del valente artigiano Antonio Sforza, suo zio. Qui, dove mi recavo spesso alla fine degli anni Cinquanta per farmi costruire dei robusti pannelli di compensato intelaiato, adatti alle mie pesanti composizioni polimateriche, conobbi Franco e da allora ci siamo sempre tenuti in contatto. Negli anni successivi spesso m’invitava nei suoi Studi per mostrarmi le nuove opere prodotte e per conoscere il mio giudizio. Erano locali del centro storico con pareti e pavimenti umidi ma che, con le sue sculture, dislocate con un certo gusto e illuminate dai faretti, divenivano suggestivi palcoscenici di un teatro dell’assurdo. Non mancava mai un salottino per chiacchierare, con accanto le riviste d’arte, i settimanali, i romanzi di Dostoevskij, di Gide e di altri autori, una stufetta elettrica realizzata da lui, un giradischi con LP di musica classica con sinfonie di Wagner e di Beethoven e sulle pareti tanti disegni personali e foto della sua fidanzata ideale e virtuale, Claudia Cardinale. Nell’estate del ’62, quando aveva 24 anni, non avendo mai esposto in pubblico, mi pregò di fare una mostra insieme. Io avevo già all’attivo varie esposizioni con opere ispirate all’Informale e stavo maturando l’idea, concretizzatasi poi nel ’63, di non farne più e di realizzare un quadro-manifesto per affermare il tramonto del ruolo dell’artista e dell’opera d’arte e per auspicare il trasferimento della creatività in campi operativi più concreti, quali ad esempio il design. In tale decisione ero stato influenzato da alcune teorie, incentrate sul rapporto tra Arte e Vita, predicate dall’amico scultore Umberto Palamà, fervido sostenitore del Futurismo. A quell’epoca le sculture di Franco erano figurative, ispirate alla tradizione romantica, oppure molto stilizzate, appartenenti al ciclo, da lui denominato ‘Astratto figurativo’. Ritenevo che esse non fossero compatibili con le mie provocanti esaltazioni materiche e gli dissi quindi di no. Dopo qualche mese mi fece la sorpresa nel suo primo Studio di Piazza Vecchia di poter ammirare nuovi lavori: straordinarie e numerose sperimentazioni materiche, basate sulla sgocciolatura e spandimento d’inchiostri su carta bagnata e rilievi materici con buchi su pannelli di gesso. Voleva dimostrarmi che era pronto per la collettiva, che aprimmo al pubblico galatinese il 30 settembre 1962 nell’ampio locale, al n. 65 di Piazza Alighieri, con grande afflusso di pubblico ma con poca comprensione e accettazione. Dopo la mostra interruppe per due anni l’attività artistica per prestare servizio militare a Bologna. Al rientro, avendo perso l’incarico d’insegnante, tornò al lavoro in varie falegnamerie: del cugino Antonio Stanca, in Via Galatone, 54, di Rossetti, di Nuzzo e di Minafra. Alcuni mesi dopo, d’accordo con l’ex compagno di scuola Salvatore Mariano, costituì nel ’66 il gruppo G.A.L.A.S. (Gruppo Artistico Liberi Artisti Salentini), ampliatosi con l’adesione successiva di Donato Cascione e Gerardo (Aldo) Caprioli. Erano tutti bravi Maestri d’arte, disoccupati a causa del servizio militare, i quali, mettendo insieme competenze specifiche e tanta voglia di fare, riuscirono a produrre una serie di originali oggetti d’arredamento, caratterizzati dall’utilizzo di rilievi di rame a sbalzo, resi pittoricamente pregevoli mediante l’applicazione di acidi particolari, tanto da riuscire ad ottenere riconoscimenti e premi nelle varie rassegne. Per la realizzazione dei manufatti utilizzavano la vecchia casa di Vico S. Biagio, 21, di proprietà di Salvatore, mentre per il punto-vendita, affidato a Gerardo, avevano affittato un piccolo monolocale al n. 49 di C.so Garibaldi. Nel ’67 riprese ad insegnare, ma continuò per qualche anno ancora a partecipare alle mostre organizzate dal gruppo, che si scioglierà gradualmente, dapprima con l’abbandono di Mariano, assunto come rappresentante dalla Galbani, e poi di Cascione, scultore, ma più noto come pittore, fatto nominare da Franco suo assistente nel Liceo artistico di Lecce, il quale purtroppo perirà in un tragico incidente stradale all’età di cinquant’anni; anche Caprioli, rimasto solo, oltre a continuare a dedicarsi alla politica, al sindacato e all’associazionismo sportivo, si trasformerà in corniciaio con laboratorio al n. 67, sempre di C.so Garibaldi, un ambiente mal messo che, cessata l’attività, egli e i suoi numerosi amici utilizzeranno ogni sera come Circolo per una partita a carte, per discutere di tradizioni popolari, di politica, di cultura e, soprattutto per commentare con ironia e sarcasmo fatti e personaggi locali (gossip, in dialetto tajare), tanto da venire scherzosamente denominato Circulu de li ‘nfamuni. Cudazzo continuerà la sua ricerca espressiva, svolgendo in contemporanea l’attività d’insegnante negli istituti ad indirizzo artistico di Galatina e Lecce. Si unirà in matrimonio con Francesca Carrozzini e diventerà padre di Alessio e Vanessa.
    Egli, descrivendo l’iter cronologico della sua produzione, l’ha così suddiviso e intitolato: il Figurativo (1955-59), l’Astratto figurativo (1960-61), lo Spaziale (1962-68), l’Ecologico (1969-79, le Pietre e le terre (1980-89), gli omaggi a Francesco d’Assisi (1990-2000) e, infine, Artificio e Natura. Le creazioni nel corso di questi sette periodi, di cui il primo influenzato da Gaetano Martinez, Vincenzo Gemito, Medardo Rosso e Giacomo Manzù, seppure differenti per il genere stilistico e per le tematiche affrontate, evidenziano tuttavia una modalità espressiva così personale da permettere a chiunque d’individuare l’impronta dell’autore. Egli ha fatto conoscere le opere al pubblico in numerose rassegne, mostre personali e collettive in varie località salentine, tra cui Galatina, Gallipoli, Collepasso, Aradeo, Salve, Tricase, Lecce, Taranto, Torre Santa Susanna, Carmiano, Martano, Calimera, Maglie, Soleto, S. Vito dei Normanni, Otranto, Nardò, Corigliano d’Otranto, Tuglie, Cursi, Brindisi e in altre città italiane: Bari, Trieste, Venezia, Como, Borgo d’Ale (VC) e Roma. Ho avuto il piacere di esporre le mie opere insieme alle sue in alcune collettive. Oltre alle suddette mostre, era solito aprire ai visitatori e alle scolaresche il suo laboratorio, in cui si faceva intervistare, mentre mostrava e spiegava le opere. Ho approfittato di questa opportunità per portare i miei alunni di scuola media. Anche il suo amico Carmine Congedo, docente del Liceo scientifico di Galatina, ha preso la stessa iniziativa nel 2004, insieme ai colleghi Guida e Barone. Rossano Marra, direttore de ‘Il Galatino’, in segno di amicizia e stima, gli ha riservato ampio spazio sul N. 12 de ‘Il Titano’ del 26 giugno 2018, pubblicandogli le note biografiche e critiche, corredate dalle foto di 39 sue opere e da una bella intervista a cura dello scrittore Gianluca Virgilio. Franco era orgoglioso di venire premiato in varie rassegne e di collezionare giudizi lusinghieri di critici d’arte e studiosi, tra cui: Giovanni Amodio, Antonio Antonaci, Carlo Caggia, Nicola Cesari, Mario De Marco, Padre Antonio Febbraro, Pietro Liaci, Tonino Miccoli, Mario e Massimo Montinari, Umberto Palamà, Domenica Specchia, Antonio Stanca e Gianluca Virgilio. Essi gli hanno riconosciuto il merito di aver già intuito negli anni Settanta la gravità dell’inquinamento e della violenza verso la natura e di aver tentato con i suoi mezzi visivi di sensibilizzare l’opinione pubblica, esponendo provocatoriamente sculture in spugna e stoffa bruciacchiate, raffiguranti uomini e piante, oppure disegnando uccelli feriti e, talvolta, esposti dal vivo. Hanno anche colto la continuità, quasi un passaggio automatico, dal ciclo Ecologico a quello delle Pietre e terre, testimoniato da blocchi di pietra dura, da lui recuperati nelle campagne e che scolpiva e levigava solo in parte, per lasciare bene in vista le tracce della loro storia geologica: screpolature, fessure, erosioni e ossidazioni. Per le Terre preferiva l’ocra rossa, che però setacciava con cura per nobilitarla esteticamente. Anche del successivo ciclo di San Francesco hanno evidenziato la consequenzialità: era prevedibile che l’autore riscoprisse per analogia l’importanza del Poverello d’Assisi, candido cantore della madre natura. Hanno sottolineato una novità in questo passaggio: l’identificazione di Franco col Francesco medioevale, tanto da modellarlo con le mani e i piedi identici ai propri. Hanno ben visto nell’ultimo, Artificio e natura, la sintesi felice e armonica delle esperienze tecnico-espressive precedenti, agganciate però alle tematiche attuali. Io avrei d’aggiungere alcune riflessioni personali alle loro egregie disamine. La prima riguarda le interpretazioni di Pietre e terre. In esse ritrovo le tracce indelebili del gusto materico dell’Informale precedente, ma da lui convertito e calato mediante una maturazione concettuale, nella realtà territoriale: al gesso bianco per le sculture e ai pigmenti di colore per le pitture, provenienti da altre regioni geografiche, sostituisce le rocce e le terre del suo Salento. La seconda concerne la sua identificazione con il famoso Assisiate, la quale, secondo me, non è riconducibile soltanto all’affinità col tema ecologico, ma investe e comprende tutta la sua dimensione esistenziale. In lui, che predicava la povertà e che proponeva e praticava una religiosità semplice e autentica, osteggiato e incompreso dai contemporanei, Franco ritrovava le sue amarezze e delusioni provate non solo verso le ingiustizie e le storture della società moderna, ma, anche, verso la sua stessa vita infelice. Egli, ad esempio, che riteneva di aver rappresentato in modo artistico e originale il Santo e che sperava di poterlo agevolmente collocare nel vicino Convento francescano o nel Museo Civico, magari donandolo, si è visto rifiutato. Continuava a sperare sino agli ultimi giorni in un’accoglienza almeno ad Assisi o a Roma, dove il nuovo Papa, aveva scelto di chiamarsi Francesco. Nonostante producesse tanto, ben pochi erano gli acquirenti. Le sue stesse condizioni di salute non erano delle migliori e varie patologie lo affliggevano, costringendolo a diete scarne e rigorose. Era un uomo molto sensibile, un gran lavoratore, semplice ed onesto, talvolta un po’ ingenuo, scarsamente loquace, ma che non esitava a dissentire quando una tesi non gli garbava. Sul piano religioso si definiva cristiano e credeva nell’esistenza di Dio, su quello politico simpatizzava per il socialismo. Tutti i colleghi, tra cui gli scultori Vito d’Elia e Angelo De Santis, stretti collaboratori della Sezione ‘Scultura’, lo stimavano per le sue doti umane e artistiche; gli allievi erano contenti di avere un insegnante sempre disponibile ad aiutarli. Era assai amareggiato ad assistere alla graduale soppressione, a causa della riduzione del numero di allievi, della sua amata Sezione a vantaggio, invece, di quella nascente e più moderna di ‘Grafica pubblicitaria e fotografia’. Ad incrementare il suo pessimismo di fondo hanno inciso parecchio alcune lunghe e tristi vicende famigliari. Una persona quindi sfortunata e delusa, ma che trovava nell’attività artistica una ragione valida per continuare a vivere e che nelle opere riusciva a sublimare il suo dramma esistenziale in messaggio universale. A metà degli anni Sessanta, in attesa di riavere l’insegnamento, frequentò per alcuni mesi il mio Studio, in C.so Re d’Italia, 59, per collaborare nella progettazione di architetture e arredamenti, poi sospesa per la cronica morosità dei committenti. Ci cimentammo con buon esito a realizzare un’opera d’arte cinetica (andata in seguito distrutta), costituita da uno schermo con forme colorate astratte, in movimento sincronizzato con le note di un brano musicale, composto ed eseguito al pianoforte dal Maestro Bruno Massaro. Un giorno mi fece leggere una frase che aveva scritto su un foglio. Sorpreso e impressionato, presi subito quella scritta e l’attaccai sul muro, accanto ad un disegno ad inchiostro di mia sorella Lucietta, raffigurante in stile espressionista un volto umano sofferente. Quelle parole, nel ricordarle ora, dopo il suo addio, mi appaiono tremendamente profetiche: “Noi lottiamo e ci disperiamo per lasciare agli altri la realtà di un sacrificio umano”. Ed ora rivolgo, anche a nome di tanti amici e colleghi, un caloroso appello ai suoi famigliari ed eredi, al Signor Sindaco, all’Assessora alla cultura, al Priore del Convento di S. Caterina d’Alessandria a trovare una soluzione che consenta a tutta la cittadinanza di non privarsi delle opere di questo bravo artista galatinese o, almeno, di alcune di esse, in particolar modo di quelle in gesso, costituenti il gruppo denominato ‘Il mondo di Francesco’ di cm 500 x 150 x 150, realizzato nel 2000. Grazie.

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