Perché della identità noi italiani non ce ne facciamo niente

Secondo il poeta Umberto Saba, la storia d’Italia non avrebbe ospitato una rivoluzione perché non fondata su un parricidio (l’uccisione del padre, e dunque del vecchio) ma su un fratricidio (e il riferimento è qui all’uccisione di Remo da parte di Romolo). Saba conclude: «Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli» In questa feroce auto-analisi ci sono le coordinate di quella che gli studiosi contemporanei chiamano la “differenza italiana”, ovverosia un pensiero, prodotto in questo paese chiamato Italia, che ha aspetti diversi, appunto, dai sistemi di pensiero di altre nazioni. La difformità più evidente consiste nel fatto che tale pensiero, a differenza di contesti come quello francese per esempio, si è formato in assenza di istituzioni politiche forti e consolidate. In questo quadro, è stato il discorso linguistico e letterario a costruire, immaginare, depositare elementi di identità, inducendo i letterati – pensiamo a Machiavelli, per esempio – a operare una sorta di supplenza nei confronti dell’autorità politica.

Per guardare a questa particolare italianità bisogna posizionarsi su un punto di vista esterno, come se guardassimo a una identità altra e lontana da noi. La scommessa della nostra riflessione consiste proprio in questo sguardo “da lontano”, che ci ha permesso di capire alcune cose, pur procedendo, talvolta, a processi dolorosi.  Il problema – o se si vuole, la potenzialità di cui siamo ancora poco consapevoli – è che questa identità, che è andata formandosi nei libri di poesia, nelle prose, nei romanzi e nei trattati, è tutt’altro che lineare e chiusa. Come nelle parole di Saba, è invece ferocemente autocritica e difficilmente addomesticabile in un discorso nazionale. La sua lingua è plurale, aperta, caratterizzata da quel rapporto con l’esterno che si realizza nei volgarizzamenti e nelle traduzioni.

Ossessionata dall’italianità ma dotata di scarsa coscienza nazionale, la cultura italiana oscilla tra particolarismo e cosmopolitismo; per riprendere Gramsci, il popolo italiano, proprio perché privo di una solida prospettiva nazionale, è un popolo che vuole “collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario”, senza frontiere, dunque ospitale. I letterati-supplenti, che hanno immaginato l’Italia, hanno agito come antropologi tenebrosi. Secondo Alberto Arbasino – altro grande nume irriducibile a qualsiasi nazionalismo eppure autore di un romanzo intitolato Fratelli d’Italia – nel loro rifiutare di dirci «come siamo belli e bravi, furbi, operosi, “dritti”, celebrativi, in preda alla tenuta e alla maturità e alla crescita», hanno rifiutato, per nostra fortuna, di essere mistificanti. Ciò vuol dire che l’italianità si ritaglia uno spazio differente sia dalla brandizzazione dell’italianità alla Renzi sia dal ripiegamento identitario alla Salvini: entrambi processi risultanti, evidentemente, dalla globalizzazione, alla quale il pensiero italiano si presenta costitutivamente alternativo. Ospitale, estroflesso e tendente al “fuori”, esso non può che disfare qualsiasi discorso di identità (italiana o altra che sia).

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 30 luglio 2019]

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