di Antonio Montefusco
Ancora pochi giorni fa, rispondendo al presidente francese Macron che ne lamentava l’assenza a una riunione europea sul tema scottante dei migranti, il ministro dell’interno Salvini affermava che «gli italiani non sono più disponibili ad essere colonia di nessuno, essere servi di nessuno, essere schiavi di nessuno.» L’appello a una identità degli italiani viene definita a partire da un vittimismo che ha radici molto lontane nella storia. Questa attitudine non se l’è inventata Salvini. Già Renzi aveva insistito sull’italianità come elemento positivo, con l’intenzione di voler in qualche modo rispondere a una certa auto-percezione negativa che è onnipresente nel discorso pubblico degli italiani e che si realizza, talvolta, in una esterofilia provinciale per la quale qualsiasi paese estero rappresenta un modello “migliore”: migliore per definizione, perché l’Italia è un paese “mancato”, per sviluppo e infrastrutture, e al rimorchio dei paesi “civili”. Renzi aveva puntato sul Made in Italy e sul Rinascimento come brand che dimostrano, invece, che l’Italia è vincente. L’attuale contesto è, si dirà, meno ridanciano ed ottimistico, e tende piuttosto a compattare l’Italia sulla paura del fenomeno migratorio, descritto non a caso come un’invasione.
Nel libro Italia senza nazione, assieme ad altri otto studiosi di letteratura, di filosofia e di storia, abbiamo provato a smontare questo discorso “identitario”, cercando di valutarlo, appunto, come un “discorso”, una costruzione sociale e culturale. Non era un’operazione facile. I discorsi culturali sono sempre sistemi simbolici in tensione; ma quello sull’identità italiana sembra una tensione insolubile. È il risultato, allo stesso tempo, della già ricordata auto-percezione negativa e di una immagine positiva diffusissima fuori dei confini nazionali. Pensiamo al «cervello in fuga» di cui, a più riprese, discutiamo con grande sofferenza: l’intellettuale esiliato ed apolide trova fuori d’Italia lo spazio per sviluppare il proprio talento. L’italiano che è apprezzato fuorie il cui talento risulta impossibile da contenere nello spazio del paese (cerco di decodificarne l’immagine diffusa, senza pronunciarmi sulla sua fondatezza) non illumina a ritroso il capitale culturale che si è formato in Italia?