Era una sorta di appello accorato, un’esortazione alla salvezza: “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunciare a quelli che ha”.
Era una fotografia sociologica della città che si trasforma in metropoli e diventa un luogo in cui “non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro,…gli ultracorpi, gli ectoplasmi”, esseri provenienti da dimensioni alienate.
Questo era il clima, dunque. In questo clima, forse l’errore appare come un risultato del miracolo italiano, una conquista paragonabile all’utilitaria, al frigorifero, al televisore, ai supermercati, al cha cha cha, ai quiz di Mike, alla settimana bianca, al panettone Motta.
L’errore fu presentato come un ossequio doveroso ai tempi che cambiavano abito e portamento. Forse si pensò che eliminando il latino dalla scuola media si introducesse una condizione di modernità. Così i ragazzini furono liberati dal fantasma della lingua morta.
Ha detto una volta Luca Cavalli Sforza che, fra tutte le sue esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’ attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto. Proprio questo è l’importante, ha detto: esercitarsi nel procedimento logico-induttivo che è necessario in qualunque ricerca.
Se una cosa del genere la dice un latinista, un umanista in senso generico e generale, allora si può anche pensare che stia tirando acqua al suo mulino. Ma Luca Cavalli Sforza è stato uno scienziato, un genetista, che acqua comunque non doveva portarne a nessun mulino se non a quello della serietà e della qualità del pensiero orientato alla ricerca. Di conseguenza la sua affermazione induce ad una riflessione e forse anche alla considerazione che questo Paese ha commesso un gravissimo errore, prima quando ha destinato il latino ad insegnamento di integrazione dell’italiano nella seconda classe della scuola media e facoltativo nella terza classe, poi quando lo ha eliminato, incidendo quindi su un elemento che risultava fondamentale nell’acquisizione degli strumenti basilari nel procedimento logico-induttivo. In altri termini: lavorare con il latino non serve ad imparare il latino; serve a ragionare e quindi a tutto il resto.
Da quando il latino fu estromesso dalla scuola media, sono passati quarantadue anni. Forse adesso è il tempo di una più approfondita riflessione, di una coerenza culturale che escluda l’adesione a mode e modelli che mutano ad ogni stagione, alle pedagogie dell’ultima ora, alle ideologie per l’occasione. Se qualsiasi apprendimento ha senso e funzione in quanto si costituisce come condizione per un processo di pensiero finalizzato alla soluzione dei problemi di ogni genere e di ogni complessità; se è vero che il latino è una disciplina che, come tutte le altre, insegna a ragionare; se il pensiero scientifico e la ricerca in ogni campo si fondano sostanzialmente, essenzialmente, inevitabilmente, sul rigore del ragionamento, allora dovremmo metterci seriamente a ragionare sull’opportunità di ripensare certe scelte. Nessuna disciplina ne esclude un’altra; anzi, ogni disciplina richiama tutte le altre, pretende la loro presenza. Ogni conoscenza e ogni ricerca della scienza sono un continuo atto d’inclusione.
Si potrebbe dire che l’apprendimento del latino costa fatica. E’ vero. Ma non di più e non di meno della fatica che costa l’apprendimento della matematica e della fisica, della chimica e della biologia, dell’inglese, del tedesco, dell’italiano. Che costa fatica lo sappiamo. Ma di tutto quello che non costa fatica, sarebbe prudente e conveniente diffidare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 18 agosto 2019]