La bellezza che ci perdiamo se non conosciamo il latino

di  Antonio  Errico

Accade, alle volte, che si possa provare  un rammarico anche per le cose che riguardano la conoscenza. Io provo rammarico per aver perduto il latino. Da un certo punto in poi non l’ho più frequentato, e così ho perduto la bellezza del suo lessico e della sua sintassi, e provo un’ammirazione affettuosa per una persona che, pur non frequentandolo da anni, se lo tiene vivissimo dentro, insieme con il greco, come un bravissimo liceale d’altri tempi  nei giorni prima della maturità.

Allora, quasi per lenire un poco il rammarico, ho letto il libro di Nicola Gardini che s’intitola Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo.  L’ho letto disertando la compagnia che scrutava le bellezze di una città. Ma non provo alcun pentimento, perché non si tratta di bellezze diverse, ma della stessa bellezza che si manifesta con forme diverse. Le dieci parole che Guarini attraversa sono ars, signum, modus, stilus, volvo, memoria, virtus, claritas, spiritus, rete. Ogni parola dipinge orizzonti, dispiega panorami, disvela universi di storie e di significati che rappresentano non solo il tempo e lo spazio nei modi in cui si sono rappresentati e si rappresentano, ma con molta probabilità anche i modi con cui spazio e tempo si configureranno negli anni a venire.

Il latino vive, dice Gardini, perché è la lingua di una tradizione che non è solo dietro di noi, ma continua, avviene ora, in più parti del mondo, e avverrà sempre, secondo traiettorie labirintiche e capillari.

Allora ci si rende conto di quanto sia stato grossolano l’ errore che abbiamo commesso in due fasi, nel giro di quindici anni. A cominciare dal 1962. Erano anni di contrasti, di contraddizioni. Il boom economico che, molto spesso, era soltanto un’illusione; una condizione di emigrazione che era una drammatica realtà; il divario economico, sociale, culturale fra Nord e Sud che si faceva più marcato ed evidente. In quell’anno uscì La vita agra di Luciano Bianciardi, un romanzo che raccontava quello che sarebbe accaduto il giorno dopo: un’analisi lucida e un’accusa circostanziata nei confronti dell’insorgente fenomeno del consumismo, il ritratto fedele e sconsolato di “uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone”.  

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