Contro la vulgata sovranista

L’argomento sovranista è discutibile per numerose ragioni.

  1. La nazionalità di un’impresa, di per sé, non è un fattore rilevante per generare crescita economica. Così come imprese di proprietà di imprenditori italiani possono delocalizzare, così imprese di proprietà di imprenditori non italiani possono investire in Italia. D’altra parte, se l’obiettivo è la buona occupazione e la crescita economica, dovrebbe essere irrilevante se a contribuire a garantirlo sia un’impresa di proprietà italiana o estera. E non può essere invocata, al tempo stesso, la sovranità nazionale (intesa come difesa delle imprese italiane) e l’obiettivo della crescita economica e del recupero di potere politico del Paese se le imprese private italiane sono meno efficienti di quelle di altri Paesi. In altri termini, è piuttosto strana la convinzione sovranista che stabilisce che ciò che è italiano sia da tutelare solo perché italiano, indipendentemente dall’efficienza relativa di imprese acquisite e di imprese che acquisiscono. E’ difficile smentire la tesi per la quale sono le imprese, di norma, più grandi, con maggiori fondi interni e maggiore accesso al credito, a essere in grado di espandere ulteriormente le loro dimensioni acquisendo imprese relativamente più piccole, anche in altri Paesi. A meno di non recepire l’ipotesi eroica per la quale l’attività d’impresa segua anche una logica ‘patriottica’. Recenti ricerche evidenziano che le acquisizioni coinvolgono imprese italiane con margini di profitto relativamente elevati e che, negli anni successivi alle acquisizioni, questo tende a crescere. Si osserva poi un aumento delle retribuzioni medie, del numero di addetti e della quota della produzione esportata.
  2. La posizione sovranista reclama, per conseguenza, un maggior potere di negoziazione con le Istituzioni europee: queste ultime anch’esse viste come un unico attore con un unico interesse. Le cose non stanno però in questi termini. Innanzitutto, l’Italia è un Paese sostanzialmente diviso (almeno) in due macroaree, con un Mezzogiorno che, in media, ha un tessuto produttivo meno efficiente di quello del Nord. L’Italia è di fatto il Paese con maggior dualismo regionale fra i Paesi europei. Non ha perciò molto senso invocare il recupero della sovranità se questa non passa prima per politiche di riequilibrio regionale che rendano la sovranità nazionale una categoria politicamente accettabile. In secondo luogo, non esiste un’Europa con un interesse unico, costante nel tempo e omogeneo fra le parti che la compongono. Esiste, semmai, un interesse di parte dell’industria tedesca (divergente da quello dei lavoratori tedeschi), spesso in sintonia con l’interesse di parte dell’industria francese (profondamente in contrasto con gli interessi di una parte consistente della popolazione francese, come dimostrato dalle recenti proteste dei ‘gilet gialli’). Esistono poi interessi divergenti all’interno delle stesse istituzioni europee: si pensi, a titolo esemplificativo, alla continua opposizione esercitata dalla Bundesbank a guida Weidmann alle politiche monetarie di Mario Draghi. Detto diversamente, il sovranismo presuppone l’esistenza di qualche forma di complotto contro l’Italia e il complotto presuppone l’esistenza di un unico centro decisionale che, in modo occulto e per ragioni non facilmente decifrabili, mira a impoverirci. Il complotto non esiste, ma la percezione diffusa del complotto (e il suo corollario sovranista) sì. Ed esiste perché si stenta a riconoscere che la gran parte della recessione italiana è auto-inflitta, ovvero dipende da politiche economiche che nessuno ci ha imposto o che comunque nessuno ha imposto di farle con l’accelerazione che abbiamo dato. Si considerino a riguardo le misure di austerità. Su fonte OCSE, al 2018, la spesa pubblica in Italia in percentuale al Pil è significativamente più bassa rispetto a quella di Francia, Finlandia, Danimarca, Belgio, Austria e Svezia e in continua diminuzione dall’inizio degli anni novanta. Germania e Spagna hanno percentuali di spesa pubblica sul Pil superiori ai nostri. Ciò sta a dire che i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno volutamente imposto al Paese maggiori dosi di austerità rispetto alla gran parte dei Paesi europei, con effetti di segno negativo su occupazione e crescita. Analogamente, soprattutto per effetto della notevole accelerazione data alle misure di precarizzazione del lavoro, le retribuzioni medie italiane sono, escludendo la Grecia, le più basse dell’Eurozona e maggiori sono le ore lavorate.

Ma soprattutto, nessuna Istituzione sovranazionale ha imposto di ridurre soprattutto le spese per l’istruzione, come hanno fatto tutti i Governi italiani nell’ultimo decennio: mentre l’Europa si è data l’obiettivo del 40% di laureati sul totale della forza-lavoro, e in media lo raggiunge, l’Italia arranca intorno al 27%.

  • I sovranisti ritengono che l’elevato debito pubblico italiano non costituisca un problema o, meglio, che costituisce un problema perché nei Trattati europei viene disposto il divieto di acquistare titoli di Stato da parte della Banca centrale europea. Per avvalorare questa tesi, ci si avvale dell’esempio del Giappone, un’economia che cresce più della nostra con un debito pubblico enormemente più alto del nostro (200% circa a fronte del 133% italiano). Il principale vulnus di questa tesi consiste nel fatto che stampare moneta di per sé può non accrescere le disponibilità effettiva di credito per imprese e famiglie, in considerazione del fatto che le banche ordinarie sono libere di usare le risorse monetarie addizionali per attività speculative.

L’elevato grado di interconnessione fra l’economia economia italiana e le economie di altri Paesi europei (si pensi alle cosiddette catene globali del valore che legano le nostre imprese del Nord a quelle del centro Europa) costituisce un ulteriore argomento contro la vulgata sovranista. Così come lo è il fatto che l’eventuale ritorno a una valuta nazionale per effettuare svalutazioni competitive non avrebbe altri effetti se non ridurre l’incentivo a innovare per le nostre imprese e accrescere i divari regionali (essendo la gran parte delle imprese esportatrici italiane localizzate a Nord).

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 11 agosto 2019]

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