Il compito dello studioso

La prima sezione, infatti, è dedicata a Tirteo, poeta elegiaco del VII secolo a. C., su cui si leggono ottime pagine. In  particolare, ne L’arte di Tirteo, un testo degli anni 1965-1967 (ora e in appresso riporto gli anni di pubblicazione del saggio citato), appare persuasiva la definizione di Tirteo come del “propugnatore convinto dei supremi interessi della polis, l’assertore di idealità superindividuali”, il cui verso servì “per risvegliare nei suoi concittadini il sopito senso dell’onore e il depresso spirito guerriero” (p. 9). Ottimo anche il paragone tra l’eroe omerico e l’oplita tirtaico: “L’eroe omerico, nel compimento della sua impresa, si lascia guidare anch’egli dal Vorbild der Vorfahren, dal senso dell’onore, dal desiderio della gloria, ma i suoi sentimenti immediati non varcano i limiti delle due schiere che assistono allo svolgersi della singolare tenzone né il periodo di tempo in cui il cavalleresco cimento si effettua: è la pronta reazione di questi spettatori, il loro grido di incitamento, il loro mormorio di ammirazione che costituiscono per il combattente epico la molla più potente per la sua valorosa esibizione, lo stimolo più efficace per il suo impegno agonistico.

Alla fine, il guerriero, pago della vittoria riportata, ritorna felice nella sua tenda, pronto a rinnovare, il giorno dopo, la prova che sotto gli occhi di una folla ammirata lo ha consacrato eroe.

Per Tirteo, invece, ciò che conta non è più l’exploit individuale, non è il giudizio immediato di chi assiste allo scontro, non è l’effimero successo sul diretto avversario, ma è il sacrificio consapevole di una schiera di soldati a cui la città guarda come ai responsabili del suo destino, pronta a decretar loro, a mezzo del suo poeta, la lode o il biasimo, la gloria o l’atimia…” (pp. 9-10). “Su questa idea nuova” prosegue Prato, “si fonda tutta l’originalità del pensiero tirtaico, che da essa attinge quell’alto significato, quel lievito morale, per cui si eternò l’idea di Sparta” (p. 11).

La seconda sezione del volume è dedicata ad Aristofane, il poeta comico ateniese vissuto tra V e IV secolo a. C., nel laboratorio del quale Prato ci conduce, illustrando I metri lirici di Aristofane (un testo del 1987) e chiarendo quale fosse la sua tecnica compositiva: “…una volta risolti i vari nodi della creazione artistica (elaborazione personale del mito, azione scenica, carattere dei personaggi ecc.), [Aristofane] passava, talora anche all’ultimo momento, come si racconta di Menandro, alla versificazione vera e propria, cioè, a quanto pare, a un lavoro di routine, che per un autore di teatro risultava la fase, se non più fastidiosa, certo la meno impegnativa e importante dell’intera opera” (p. 29). Aristofane, secondo Prato, “contribuì egli stesso al passaggio dal vecchio al nuovo teatro, che tendeva ad essere, come è stato detto, un teatro di intrattenimento, dove balzavano in primo piano le doti del musico e, nel contempo, il virtuosismo degli artisti” (p. 36). L’importante era, attraverso “l’orecchiabilità dei ritmi, … riportare presso il popolo almeno lo stesso successo che in passato aveva arriso, com’egli stesso ricorda, ad altri poeti” (p. 38). Purtroppo la musica antica che accompagnava i versi è andata del tutto perduta: “Perciò, la perdita di tale musica, se pure può trovare nei superstiti metri un succedaneo abbastanza attendibile per la comprensione del testo poetico, priva il lettore moderno di un elemento importante per intendere e gustare pienamente la bellezza di quegli antichi canti, soprattutto di quelli scritti dal poeta con funzioni squisitamente orchestico-musicali” (p. 61).

Sorvolerò su vari testi dedicati ad una commedia di Aristofane dal titolo Tesmoforiazuse, che Prato indefessamente studia dal 1993 al 2000 fino ad arrivare all’edizione da lui curata de Le donne di Tesmoforie, con traduzione di Dario Del Corno, Milano 2001, per passare alla terza sezione del libro sui Poeti tragici, di cui lo studioso revisiona alcuni passi, anche alla luce dei recenti ritrovamenti di papiri disseppelliti dalle sabbie africane – si ricordi che, come ha scritto Pietro Giannini, discepolo di Prato, “la Papirologia a Lecce deve a Carlo Prato un avvio iniziale” (Carlo Prato e la Papirologia, in Mario Capasso (a cura di), “Papiri e ostraka greci”, “Papyrologica Lupiensia” 13/2004, Congedo Editore, Lecce 2005, p. 10) -. Il fine è sempre lo stesso: occorre procedere secondo “una prudente e sana filologia, che non disdegna… l’indagine minuziosa e paziente, pur di arrivare a ricostituire il verso quale uscì dalle mani dell’Autore” (p. 128); per dirla ancora con Giannini: “…la finalità principale dell’approccio di Carlo Prato ai papiri [consiste nella] ricostruzione del testo, per quello che egli ha sempre considerato il momento culminante e risolutivo dell’attività filologica: l’edizione critica” (Carlo Prato e la Papirologia, cit., p. 9).

La quarta sezione del libro è dedicata a Euripide. Vi si leggono pagine suggestive sulla lingua di Euripide messa a confronto con quella degli altri tragici, in particolare Sofocle (Note sulla lingua di Euripide, pp. 241-244; lo scritto è del 1969):  “…per Sofocle ci si trova di fronte a un unico ampio periodo, che si articola in varie proposizioni subordinate e in incisi, che conferiscono alla descrizione un’armoniosa continuità e una tensione logica di ampio respiro; per Euripide si ha da fare con una successione di proposizioni, contenute nell’ambito di un verso, che costituiscono tanti quadri autonomi, pervasi di intenso pathos e, pur nella loro estrema sobrietà formale, carichi di una grande forza drammatica”. (p. 244);  ed ancora pagine sul “mestiere del poeta”: “La verità è che Euripide, non diversamente da molti altri poeti dell’antichità, soprattutto di quella arcaica, più che della forma esteriore si preoccupava dei contenuti e più che alla perfezione della stesura dei versi – che era per lui, in definitiva, la parte meno creativa e meno stimolante – mirava a una rielaborazione originale del mito, a uno studio accurato dei caratteri, alla trasmissione di un messaggio nuovo” (p. 251). Sto citando daLa Medea di Euripide e la dike di Afrodite, un saggio degli anni 1969-1971, che contiene una bella interpretazione del capolavoro euripideo. Si legga la pagina in cui il personaggio di Medea, tradita e abbandonata da Giasone, rivendica la sua giustizia e le motivazioni che sono alla base del conflitto tragico: “La dike di Medea è … una “giustizia superiore”, che ha le sue origini nell’ “aurea regola”, secondo la quale bisogna rendere pari per pari, bene con bene, male con male, recando gioia agli amici, dolore ai nemici. E’ la norma che conosciamo già da Omero, Archiloco, Solone, Saffo, Alceo, ecc. e che ella non manca di rammentare a chi ritenesse Medea sciocca, debole, rassegnata” (p. 257).

Per tornare alla lingua e alla tecnica versificatoria di Euripide, importanti considerazioni si leggono nel saggio degli anni 1969-1971 dal titolo La tecnica versificatoria euripidea (pp. 263-289), dove Prato stabilisce la differenza tra i poeti dell’età arcaica e quelli dell’età ellenistica, nel mezzo dei quali egli colloca i tragici, con tutte le contraddizioni che nascono da siffatta collocazione: “… non v’è dubbio, infatti, che l’attività di uno scrittore nell’età arcaica, quando la tecnica di composizione è di natura prevalentemente orale e l’impegno artistico si esplica, in maniera preminente, in rapporto ai contenuti e ai valori tipici del tempo, non può essere la stessa di quella che, ad es., sarà svolta più tardi dai poeti ellenistici, i quali non avendo, nella maggior parte dei casi, interessi di natura etico-politica, cominciano a considerare la loro arte come un’attività autonoma dello spirito e scrivono, non più per il teatro o per il simposio, per un club o per un accampamento militare, ma per soddisfare personali esigenze o per rivolgersi a una ristretta cerchia di intenditori… In mezzo, tra il pathos fecondo della libera creazione arcaica e la distaccata levigatezza della poesia ellenistica, si colloca la misurata, armoniosa costruzione della tragedia classica, che, pur non rinunziando alla funzione educativa, in senso etico-politico, esplicata dai poeti lirici dell’età precedente, e, pur indirizzandosi a un uditorio di varia formazione culturale e di diversa estrazione sociale, non si mostra insensibile alle nuove esigenze poste da uno spettacolo largamente seguito ed estremamente impegnativo” (p. 264). In particolare, per quanto riguarda Euripide – e in questo Prato segue il suo predecessore sulla cattedra leccese, Bruno Gentili, i cui studi sull’oralità degli anni settanta confluiranno nel celebre volume dal titolo Poesia e pubblico nella Grecia antica, Laterza, Bari 1983  – , Prato ritiene che egli, “tutto preso dal tormento dei problemi sorti nella nuova epoca e ansioso di vedere finalmente accolto  con favore il suo messaggio, non si curò eccessivamente, come del resto era antica consuetudine, dell’aspetto strettamente formale della sua opera… ma in complesso preferì attenersi a una tecnica versificatoria semplice e rapida, fondata su un formulario scarsamente variato…” (p. 266). Temi, questi, che saranno ripresi e approfonditi, con apporto di molte esemplificazioni, ne L’oralità della versificazione euripidea (pp. 291-309) del 1978. La sezione euripidea si chiude con uno studio su Il coro di Euripide: funzione e struttura (pp. 311-329), datato 1984-1985. Per Prato, Euripide “fu restio a seguire, anche per quanto concerne la funzione e la struttura del coro, le orme dei suoi predecessori” (p. 314), svuotandolo della sua funzione tradizionale (per Aristotele, che censura Euripide, il Coro era parte organica di un “intero”) e rendendolo autonomo dal resto della tragedia.

La quinta sezione del volume è intitolata Giuliano Imperatore. Si tratta di Flavio Claudio Giuliano, detto l’Apostata (331-363 d. C.), l’imperatore che abiurò la fede cristiana e restaurò il paganesimo. Di lui Prato studia sin dagli anni cinquanta il Misopogon,  l’Epistola a Temistio e Contro i cinici ignoranti, restaurandone il testo. Segnalo, in particolare il saggio del 1986, Per la storia del testo e delle edizioni di Giuliano Imperatore (pp. 361-377), in cui Prato evidenzia “l’ostilità preconcetta nei confronti di Giuliano e delle sue idee, visibile ancora nelle aspre invettive e negli ironici commenti apposti ai margini dei nostri mss. da indignati copisti” (p. 362), che ha reso impervia la tradizione manoscritta e ogni tentativo di curarne i testi; “… vuoi per lo spettro del rifiuto dell’imprimatur, vuoi per i rischi connessi coll’intramontabile intolleranza controriformista, la pubblicazione delle opere di un imperatore, additato nella cultura e nell’insegnamento del tempo come persecutore dei Cristiani e pericolosissimo Anticristo, richiedeva, oltreché un vivissimo amore per la tradizione classica, una buona dose di libertà spirituale e di coraggio, che non tutti, evidentemente, erano disposti a professare pubblicamente” (p. 365). Esemplare, sotto questo punto di vista, appare la vicenda raccontata in Ezechiele Spanheim e la fallita edizione di Giuliano Imperatore(pp. 387-399; il saggio è del 1987): la storia di un dotto editore seicentesco di Giuliano che non ha “potuto (o voluto) portare a termine il promesso commento” (p. 394) dell’opera giulianea. Rimane il fatto che a Giuliano, secondo Prato, vanno riconosciute, “cospicue qualità di narratore” (Giuliano l’ “apostata” scrittore, pp. 395-403). Si veda, per es., la descrizione di Parigi nel Misopogon, “così ricca di osservazioni e di notizie interessanti”, per cui noi moderni dobbiamo apprezzare, come già facevano gli antichi (si leggano i lusinghieri giudizi di Ammiano Marcellino, Libanio, Socrate Scolastico, riportati a p. 396), “le doti giulianee di osservatore acuto e di efficace narratore” (p. 403).

La sesta e la settima sezione del volume, senza dubbio entrambe più esili rispetto alle altre, raccolgono rispettivamente brevi scritti sullo Pseudo-Seneca e Varia. Di quest’ultima sezione segnalo in particolare il saggio Originalità artistica e proprietà letteraria nell’antica Grecia (pp. 455-460) del 1986, pagine che potrebbero essere lette con profitto anche da uno studente liceale, che voglia comprendere la specificità del “sistema letterario” greco: “Gli antichi greci, se pure ebbero abbastanza chiaro il concetto dell’originalità artistica, non altrettanto chiaramente ebbero, almeno entro certi limiti e fino ad una certa epoca, il senso della proprietà letteraria, la cognizione dei “diritti d’autore”, il valore esatto del plagio” (p. 455). Il fatto è che a loro bastava, come disse Isocrate (cit. a p. 459), “dire meglio le cose dette da chi ci ha preceduto” e ciò, scrive Prato, poteva essere “conseguito grazie soprattutto ad uno scaltrito mestiere, ad una straordinaria memoria metrica, a un’abile utilizzazione del materiale tradizionale” (p. 458). E già Bacchilide (cit. a p. 457) sapeva che “un poeta deriva da un altro la sua bravura, così ora come in passato, poiché non è molto facile trovare le porte di canti mai proferiti”. Ed io mi stupisco a considerare che nulla è cambiato anche ai nostri giorni! Risulta pertanto convalidato il metodo critico di Prato che così egli riassumeva nel saggio già citato su La tecnica versificatoria euripidea: “A chi voglia studiare sotto tale aspetto un’opera di arte antica non rimane che procedere ad un’analisi minuta di essa, componendo il mosaico, più o meno abilmente costruito dall’autore, per isolare gli elementi formali che da lui furono di volta in volta utilizzati e ripercorrere con lui il cammino compiuto per dare corpo al pensiero e alle immagini nate nella sua mente. Solo così si potranno non dico intendere le vie del canto o il valore del messaggio poetico – che è impresa molto ardua e richiede l’esame di molti aspetti della creazione poetica -, ma conoscere almeno i caratteri della tecnica usata dallo scrittore, i mezzi espressivi da lui impiegati nella stesura dei testi, i debiti eventualmente contratti verso la tradizione, l’importanza che tale aspetto della composizione rivestiva nell’economia generale dell’opera” (p. 264). Così Carlo Prato descriveva il compito dello studioso, e per me non c’è modo migliore di raccontare il suo metodo critico e il senso della sua opera.

[ Recensione a Carlo Prato, Scritti minori, a cura di Pietro Giannini e Saulo Delle Donne,  Congedo Editore, Galatina, 2009), “Il Paese Nuovo” di mercoledì 16 settembre 2009, p. 7; poi ne “Il Titano”. Supplemento economico de “Il Galatino” n. 12 del 16 giugno 2010, pp. 39-40.]

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