Giustizia è fatta, dunque? Proviamo a riflettere. Le prove Invalsi («Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione») citate prima non sono formali né banali, intendono misurare le competenze in italiano, matematica e inglese di oltre due milioni di studenti di seconda e quinta elementare, terza media e seconda superiore. Pur con qualche miglioramento rispetto agli anni precedenti, il 2019 registra ancora un divario netto tra Nord e Sud. Fa impressione la percentuale di alunni che hanno difficoltà a comprendere in maniera adeguata un testo di cronaca o un resoconto semplice, letto o ascoltato (ne parla diffusamente Miriam Voghera ancora nel nostro giornale del 28 luglio, discutendo anche alcune reazioni della stampa nazionale; il giorno dopo intervengono, con ulteriori riflessioni, Mauro Calise e Paolo Maria Mariano).
Si tratta di diversità dovute, semplicemente, a diversi criteri di analisi o (addirittura) a errori di valutazione commessi dai ricercatori? Per capirne di più, conviene allargare lo spettro dei confronti. PISA è una sigla che indica un’indagine dell’OCSE («Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico») che valuta l’efficacia del sistema educativo mondiale. Vengono esaminati circa 540.000 studenti di 15 anni, rappresentativi di circa 30 milioni di coetanei, dislocati in 72 paesi, con tradizioni, storia, economie diverse. Si tratta di numeri molto alti, che non è possibile sottovalutare. La prima indagine PISA si è svolta nel 2000, viene ripetuta ogni tre anni (l’ultima è del 2018), allo scopo di misurare anche le linee di tendenza, i miglioramenti e i peggioramenti.
Si considerano matematica, scienze e padronanza linguistica (naturalmente la lingua madre cambia paese per paese, nel nostro caso si considera la padronanza dell’italiano). Queste discipline sono fondamentali per acquisire conoscenze e abilità essenziali per una piena partecipazione dell’individuo alla vita della società moderna, rispondono alla domanda: «Cosa è importante per un cittadino conoscere ed essere capace di fare»? Ai primi posti della più recente classifica troviamo Singapore, Giappone, Estonia, Taipei (/Formosa), Finlandia, Macao (Cina), Canada, Viet Nam, Hong Kong (Cina), Cina. Ce n’è abbastanza per smentire presupposizioni infondate (sull’eccellenza del sistema educativo occidentale tradizionale) e pregiudizi (sulle nazioni ritenute arretrate). L’Italia si colloca più o meno a metà classifica. Non c’è da consolarsi, battiamo paesi con economie povere e spesso dilaniati da guerre recenti; agli ultimi posti si collocano Tunisia, Macedonia, Kosovo, Algeria, Repubblica Domenicana. Se si scompongono i dati l’allarme aumenta. Esiste una differenza sostanziale tra gli studenti italiani del Nord e quelli del Sud e delle Isole. Confrontati con la graduatoria globale, i primi (Bolzano, Trento e la Lombardia) raggiungono la media più alta, i secondi affondano in classifica nelle ultime posizioni. Gli studenti della Campania sono nella parte più bassa, al pari dei ragazzi delle Azzorre e dell’Argentina.
Riteniamo ancora verosimili i record meridionali alla maturità? A parer mio, qualcosa non va nei voti altissimi concentrati in larga parte in alcune regioni. Come se vigesse un federalismo degli esami, corrispettivo contrario al federalismo di risorse, sanità, retribuzioni (anche dei docenti) che i governatori di Veneto e Lombardia reclamano per le proprie regioni, in nome di un’autonomia mal intesa. Tocco un punto delicato, non tutti saranno d’accordo. Basta con le facilitazioni, comunque motivate. Bisogna puntare sulla qualità, a tutti i livelli. Invece si bada ai numeri, disinteressandosi dei contenuti, cedendo alle pressioni dell’ambiente e al sindacalismo dei genitori, che rivendicano a priori voti alti per i propri figli. Non va meglio all’università. Ci sono corsi in cui molti si laureano in anticipo rispetto agli anni previsti e la media del voto di laurea oscilla tra 110 e 110 e lode (ce ne sono anche a Unisalento). Il Ministero premia questi corsi, ritenendo tali risultati eccellenti (e quindi incoraggia l’imitazione del modello); ma ho forti dubbi che quegli studenti siano tutti dei geni. Si premia l’apparenza, non la sostanza.
Non rendiamo un buon servizio al Sud se mettiamo sullo stesso piano chi studia duramente, con fatica, spesso in condizioni economiche disagiate, e chi ottiene gli stessi risultati immeritatamente. Fino a non molti decenni fa si guardava con ammirazione chi, a prezzo di sacrifici, riusciva a raggiungere livelli elevati di cultura. Oggi invece prevale la convinzione che studio e sapere (privi di prestigio) sono irrilevanti per il successo sociale ed economico (ma non è così, un livello di competenze elevato dà anche vantaggi economici). La spinta generalizzata verso l’alto, indipendentemente dalle qualità e dall’impegno, non fa bene alle nostre regioni. Conosco colleghi che abbondano nei voti quando insegnano nelle università meridionali ma non farebbero la stessa cosa se insegnassero altrove. Se chiedo perché, mi rispondono che al Sud si fa così. Senza rendersene conto assumono una posizione razzista, trattano gli studenti meridionali come incapaci, che vanno premiati a prescindere. E invece i nostri studenti sanno essere eccellenti se sono guidati a dovere, se hanno laboratori attrezzati e biblioteche ben fornite.
La vera sfida per il Sud è puntare sull’eccellenza, misurandosi alla pari con il resto d’Italia, con l’Europa, con il mondo. Sono necessari investimenti strutturali: edifici, palestre, libri, attrezzature e strumenti didattici di primo livello. Non sarebbe spesa improduttiva. I professori, già chiamati a un lavoro improbo e scarsamente considerato, abbiano voglia di porsi obiettivi ambiziosi, offrendo ulteriore impegno e chiedendo ai ragazzi qualità crescente. Creare una vera unità nazionale nell’istruzione dovrebbe essere scopo primario della politica e obiettivo del paese intero. Servono giovani sempre più preparati, all’altezza dei tempi. La lotta contro il declino e la rinascita dell’Italia partono da qui.