Qui vorrei soltanto provarmi a dire, sinteticamente, che cosa ha rappresentato Marti per la nostra Università, quali sono stati i suoi meriti maggiori. Ebbene, direi innanzitutto che egli è stato il fondatore degli studi di italianistica, cioè dello studio della letteratura italiana basato su rigorosi criteri “scientifici” e su una precisa metodologia di ricerca. D’altra parte, quando incominciò a insegnare a Lecce, aveva alle spalle, oltre che una solida preparazione scolastica, una prestigiosa formazione a livello universitario nonché esperienze di rilievo in campo accademico. Al Liceo “Colonna” di Galatina, aveva avuto come professore di italiano un insigne filologo, Raffaele Spongano, che poi doveva ricoprire la cattedra di Letteratura italiana presso l’Università di Bologna. Fu Spongano, che Marti ha definito “maestro e guida”, ad avviarlo alle letture di alto livello e a sollecitarlo a presentarsi al concorso per l’ammissione alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Qui incontrò il suo secondo maestro, Luigi Russo, uno dei rappresentanti più noti della critica letteraria italiana della prima metà del Novecento, con il quale si laureò elaborando una tesi su Giacomo Leopardi. Poi nella facoltà di Lettere dell’Università di Roma lavorò, come assistente straordinario, accanto ad un altro autorevole studioso, Alfredo Schiaffini, che teneva la cattedra di Storia della lingua italiana.
Con questi tre maestri, dunque, Marti apprese, per riprendere il titolo di un suo volumetto, il “mestiere del critico”, che poi insegnò per lunghi anni ai suoi allievi salentini, riuscendo a creare una “scuola” non particolarmente folta ma composta da studiosi assai qualificati. Questi, a loro volta, hanno formato altri allievi tuttora operanti, per cui si può dire che la lezione del maestro continui, in una certa misura, ancora oggi. Tra coloro che gli sono stati particolarmente vicino e che lo consideravano un punto di riferimento, mi piace ricordare i nomi di tre italianisti, tutti purtroppo scomparsi: Gino Rizzo, Antonio Mangione e Donato Valli. Con loro diede vita a un progetto complesso e ambizioso che dimostra anche il profondo legame che aveva con la sua terra: la “Biblioteca salentina di cultura”, poi diventata “Biblioteca di scrittori salentini”. Nelle sue intenzioni, lo scopo di questa collana, pubblicata prima presso l’editore Milella di Lecce e poi con Congedo di Galatina, era quello di “rifondare” la cultura salentina, messa costantemente in rapporto con quella nazionale in una concezione policentrica dello svolgimento della letteratura italiana, che tenesse conto, oltre che della storia, anche della geografia, cioè delle diverse aree del paese in cui essa si è sviluppata. Per questa collezione, oltre a seguire da vicino tutti i volumi (e alla fine, fino all’ultimo apparso nel 2002, ne uscirono in tutto diciassette, per complessivi ventidue grossi tomi), Marti ne curò direttamente quattro.
Ma il suo amore, la sua passione per la “piccola patria”, per il “suo” Salento, è testimoniato anche da una messe imponente di scritti, raccolti in vari volumi, non solo di argomento letterario, dedicati ad autori antichi e moderni, ma anche di carattere storico-culturale, artistico, linguistico, antropologico. Tra questi, non mancano nemmeno prose di natura memoriale, autobiografica, nelle quali egli rievoca, con una scrittura affabile e piacevole, vicende della sua vita e personaggi, più o meno noti, da lui conosciuti nel corso dei decenni.
Marti rappresentava un esempio di rigore assoluto nella ricerca a cui era fedele fino alle estreme conseguenze. Non aveva alcuna difficoltà, ad esempio, a “stroncare” volumi o saggi, anche di colleghi autorevoli, quando non lo convincevano, a costo di rompere amicizie e rapporti consolidati, come in effetti è avvenuto più di una volta. E a questo proposito gli piaceva ripetere la nota locuzione latina: “Amicus Plato, sed magis amica veritas”. Spesso, gli stessi suoi allievi fecero le spese di questo carattere inflessibile, poi attenuatosi nel corso degli anni, ricevendo critiche per i loro lavori anche in occasioni pubbliche.
Tra le sue caratteristiche principali, vorrei citare infine la dedizione per lo studio, che per lui non era finalizzato esclusivamente a esigenze di carriera o al rispetto di dettami esteriori, come purtroppo succede oggi, ma era un abito mentale, una necessità dello spirito, un modo di essere. Anche per questo forse egli personifica un’idea dell’università che è lontana anni luce da quella attuale. Fino agli ultimi tempi della sua lunga vita, Marti non ha mai cessato di studiare, di scrivere, di pubblicare, di intervenire a Convegni, sempre con un impegno e un entusiasmo ammirevoli. Ricordo che nel 2010, alla bella età di novantasei anni, partecipò al Convegno di studio sullo scrittore Michele Saponaro, organizzato da chi scrive questa nota, tenendo una relazione lucidissima, accolta dal pubblico presente in sala, alzatosi in piede, con un lungo applauso, anzi, come si usa dire oggi, con una standing ovation. D’altra parte, l’ultimo suo volume, una raccolta di saggi, da lui accuratamente selezionati, Recuperi. Scavi linguistico-letterari italiani fra Due e Seicento, pubblicato da Congedo di Galatina a cura di Marco Leone, uscì proprio nel 2014, il penultimo anno di vita.
Ecco, a ben vedere, forse è proprio questa la lezione più alta e duratura che, al di là delle sue innumerevoli pubblicazioni, ci ha lasciato Mario Marti. Ed è questa la lezione che chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo per tanti anni, come lo scrivente, non dimenticherà mai.
[ “Il Bollettino” Periodico di cultura dell’Università del Salento, a. IX, nn. 5-7, maggio-luglio 2019, pp. 4-5.]